 Corte Costituzionale sent. n. 44 11 febbraio 2011
Corte Costituzionale sent. n. 44 11 febbraio 2011
AREE PROTETTE - CACCIA - Istituzione nel territorio dei parchi di aree cinofile adibite all’addestramento dei cani da caccia - Art. 1, c. 16 l.r. Campania n. 2/2010 - Illegittimità costituzionale.
 SENTENZA N. 44 ANNO 2011 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori:  Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo   MADDALENA, Alfio    FINOCCHIARO, Alfonso  QUARANTA, Franco   GALLO, Luigi   MAZZELLA,  Gaetano  SILVESTRI, Sabino   CASSESE, Giuseppe  TESAURO, Paolo Maria   NAPOLITANO, Giuseppe  FRIGO, Alessandro  CRISCUOLO, Paolo   GROSSI,  Giorgio  LATTANZI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1,  commi 12, 16 e 25 della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010 n. 2  (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale  della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010), promosso dal  Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22-24  marzo 2010, depositato in cancelleria il 30 marzo 2010 ed iscritto al n.  51 del registro ricorsi 2010. Visto l’atto di costituzione della Regione Campania; udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2011 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro; uditi l’avvocato Vincenzo Cocozza per la Regione  Campania e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente  del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato alla Regione Campania il 22  marzo 2010 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il 30  marzo 2010 (reg. ric. n. 51 del 2010), il Presidente del Consiglio dei  Ministri ha proposto questione di legittimità costituzionale della legge  della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la  formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania –  Legge finanziaria anno 2010), ed in particolare, tra le altre  disposizioni: dell’art. 1, comma 12, ultima parte, in relazione all’art.  117, primo e secondo comma, lettere e) ed s) della Costituzione;  dell’art. 1, comma 16, in relazione all’art. 117, primo e secondo comma,  lettere e) ed s), Cost; dell’art. 1, comma 25, in relazione all’art.  117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost.. 1.1. – Il ricorrente assume che l’art. 1, comma 12,  ultima parte, della legge Regione Campania n. 2 del 2010, contrasta con  la normativa nazionale e comunitaria vigente in materia di acque. La norma prevede un finanziamento da parte della  Regione, con fondi comunitari (risorse Fondo europeo di sviluppo  regionale – FESR), per la realizzazione di condotte sottomarine lungo i  canali artificiali con più elevato carico inquinante del litorale  Domitio-Flegreo, per lo sversamento a fondale delle portate di magra; la  disposizione risulterebbe incompatibile con la destinazione delle  risorse pubbliche alla realizzazione di opere funzionali a garantire una  corretta depurazione delle acque reflue prima dello scarico. La realizzazione delle infrastrutture, per le quali la  norma impugnata dispone il finanziamento, comporterebbe, senza alcun  beneficio ambientale, una diversificazione di ricettore di scarichi non  depurati nel mare piuttosto che nei canali artificiali. L’area  interessata è quella del litorale Domitio-Flegreo – già sito di  interesse nazionale, nel quale sono in campo notevoli risorse umane e  finanziarie tese al ripristino di uno stato di legalità ambientale – che  richiederebbe interventi maggiormente riqualificanti, mirati alla  irreggimentazione delle acque e dei reflui urbani che scaricano in  assenza di depurazione ed a garantire una depurazione che rispetti i  limiti tabellari. La formulazione della norma regionale consentirebbe  interventi non legittimi e sottrarrebbe risorse pubbliche a ulteriori  possibili soluzioni, risolutive dello stato di degrado esistente. Per  tali motivazioni, non appare conforme al dettato costituzionale la norma  censurata, in quanto introduce una previsione contraria alla normativa  comunitaria e nazionale vigente in materia di acque – direttiva 23  ottobre 2000, n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del  Consiglio che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia  di acque), e parte III del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152  (Norme in materia ambientale) – ed inoltre non tiene conto delle  finalità istituzionali con le quali sono stati fissati e condivisi  obiettivi tra Comunità europea, Stato e regioni, finalizzati alla piena  attuazione della stessa. La difformità della norma regionale dalla normativa  comunitaria, nonché da quella nazionale afferente alle materie della  «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e della «tutela della  concorrenza», determina il contrasto con l’art. 117, comma 1, e comma 2,  lettere e) ed s), della Costituzione. 1.2. – Il ricorrente espone inoltre che l’art. 1, comma  16, della citata legge regionale prevede che «al fine di contribuire al  rilancio dell’economia delle zone montane e dei territori compresi nei  parchi mediante il turismo cinofilo (cino-turismo), i comuni ricompresi  in queste aree istituiscono, anche d’intesa con gli organi di direzione  degli enti parco medesimi, aree cinofile. Dette aree sono adibite  esclusivamente all’addestramento ed allenamento dei cani da caccia ed  alle conseguenti verifiche zootecniche. Nell’interno delle stesse i  comuni individuano strutture ove consentire l’addestramento anche dei  cani da pastore, da utilità e dei cani adibiti alla pet-therapy ed al  soccorso. La realizzazione e gestione di tali aree e strutture è  prevalentemente affidata a cooperative di giovani residenti nei comuni  interessati o ad imprenditori agricoli, singoli o associati, ed alle  associazioni cinofilo-venatorie. In tali zone sono altresì consentite,  nell’arco dell’anno, prove zootecniche per il miglioramento delle razze  canine da caccia e da pastore di cani iscritti all’anagrafe canina». La disposizione si porrebbe in contrasto con la  normativa statale di settore rappresentata dalla legge 6 dicembre 1991,  n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), che, all’art. 11, prevede che  ogni parco, nel rispetto delle proprie caratteristiche, attraverso il  proprio regolamento, disciplini l’esercizio delle attività consentite  entro il territorio di competenza, imponendo, tuttavia, al comma 3, il  divieto di tutte «le attività e le opere che possono compromettere la  salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati con  particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi  habitat». Tra tali attività rientra sicuramente l’addestramento  cani atteso che, come affermato dalla Corte costituzionale con sentenza  n. 350 del 1991, «nessun dubbio può sussistere né in ordine al fatto che  "addestramento dei cani", in quanto attività strumentale all’esercizio  venatorio, debba ricondursi alla materia della "caccia"...» e di  conseguenza costituisce attività assolutamente vietata nelle aree  protette. Conclusivamente, la norma regionale in esame, dettando  disposizioni difformi dalla normativa nazionale afferente alle materie  della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» e della «tutela della  concorrenza» di cui all’art. 117, secondo comma, lettere s) ed e), per  la quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva, è  costituzionalmente illegittima, per violazione delle suddette  disposizioni costituzionali. 1.3. – Merita, altresì, censura – secondo il ricorrente –  l’art. 1, comma 25, della stessa legge regionale n. 2 del 2010, il  quale dispone in materia di dislocazione di centrali di produzione di  energia da fonti rinnovabili. La norma prescrive il rispetto di una  distanza minima per tutti gli insediamenti energetici non inferiore a  cinquecento metri lineari dalle aree interessate da coltivazioni  viticole con marchio DOC e DOCG, e non inferiore a mille metri lineari  da aziende agrituristiche ricadenti in tali aree, individuando, in tal  modo, aree non idonee all’installazione di impianti di produzione di  energia elettrica da fonti rinnovabili. L’art. 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre  2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla  promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche  rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), prevede che «in  Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività  produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del  territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si  approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al  comma 3», relativo al rilascio dell’autorizzazione per l’installazione  di impianti alimentati da fonti rinnovabili. Tale disposizione è espressione della competenza statale  in materia di tutela dell’ambiente, in quanto, inserita nell’ambito  della disciplina relativa ai procedimenti per il rilascio  dell’autorizzazione relativa agli impianti da fonti rinnovabili, ha,  quale precipua finalità, quella di proteggere il paesaggio. Il legislatore statale, infatti, allo stesso comma 10,  ha espressamente sancito che le linee guida «sono volte, in particolare,  ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico  riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio». La giurisprudenza costituzionale ha costantemente  affermato che la normativa statale di cornice non contempla alcuna  limitazione specifica, né divieti inderogabili, alla localizzazione  degli impianti energetici, rimettendo alle linee guida di cui all’art.  12, comma 10, del decreto legislativo n. 387 del 2003, il compito di  «assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico  riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio». È ben vero che la richiamata disposizione statale  abilita le Regioni a «procedere alla indicazione di aree e siti non  idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti», ma ciò  può aver luogo solo «in attuazione» delle predette linee guida, che, al  momento, non sono ancora state adottate con le modalità previste dallo  stesso comma 10, vale a dire in sede di Conferenza unificata. Il bilanciamento tra le esigenze connesse alla  produzione di energia e gli interessi, variamente modulati, rilevanti in  questo ambito, impone, infatti, una prima ponderazione concertata in  ossequio al principio di leale cooperazione, al fine di consentire, alle  Regioni e agli enti locali, di contribuire alla compiuta definizione di  adeguate forme di contemperamento di tali esigenze. Una volta raggiunto  tale equilibrio, ogni Regione potrà adeguare i criteri così definiti  alle specifiche caratteristiche dei rispettivi contesti territoriali. La norma impugnata appare, pertanto, lesiva della  competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente di cui  all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché del terzo comma  dello stesso articolo, contrastando con i principi fondamentali della  legislazione statale in materia di produzione, trasporto e distribuzione  nazionale dell’energia. 2. – Nel giudizio si è costituita la Regione Campania,  con decreto dirigenziale dell’Avvocato coordinatore, chiedendo il  rigetto del ricorso. In data 4 gennaio 2011, il Presidente del Consiglio dei  Ministri ha depositato memoria illustrativa, con la quale, nel ribadire  le proprie conclusioni, ha eccepito l’inammissibilità della costituzione  in giudizio della Regione Campania, osservando che, in base all’art. 51  del vigente Statuto della Regione (Legge regionale 28 maggio 2009, n 6,  Statuto della Regione Campania), che si adegua all’art. 32, comma, 2,  della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul  funzionamento della Corte costituzionale), la competenza a deliberare in  ordine alla proposizione del giudizio di costituzionalità spetta alla  Giunta regionale e in tale competenza deve ritenersi compresa la  deliberazione a costituirsi in tale giudizio, attesa la natura politica  delle valutazioni che i due atti richiedono (sentenza n. 225 del 2010). Con atto depositato presso questa Corte il 5 gennaio  2011, la Regione Campania ha fatto pervenire delibera della Giunta  regionale, resa a termine della seduta del 30 dicembre 2010, con cui,  premessa l’irregolarità della propria precedente costituzione nel  giudizio di costituzionalità, alla luce della giurisprudenza  costituzionale, ratifica il Decreto dirigenziale n. 231 del 26 marzo  2010 dell’A.G.C. Avvocatura. Considerato in diritto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha  impugnato numerose disposizioni della legge della Regione Campania 21  gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e  pluriennale della regione Campania – Legge finanziaria anno 2010): tra  queste l’art. 1, comma 12, ultima parte, per violazione dell’art. 117,  primo e secondo comma, lettere e) ed s) della Costituzione; l’art. 1,  comma 16, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettere  e) ed s), Cost.; l’art. 1, comma 25, per violazione dell’art. 117,  secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost. Per ragioni di omogeneità di materia, la trattazione  delle predette questioni di costituzionalità è stata separata da quella  delle altre, sollevate con lo stesso ricorso. 2. – Preliminarmente va confermata l’ordinanza, emessa  all’udienza pubblica ed allegata alla presente decisione, con la quale è  stata dichiarata inammissibile la costituzione in giudizio della  Regione Campania, non potendo riconoscersi efficacia sanante alla c.d.  ratifica della prima costituzione disposta con il Decreto dirigenziale  n. 231 del 26 marzo 2010 dell’A.G.C. Avvocatura ed intervenuta, ad opera  della Giunta regionale, successivamente alla scadenza dei termini per  la costituzione. 3. – L’art. 1, comma 12, ultima parte, della legge  Regione Campania n. 2 del 2010, prevede il finanziamento con fondi  comunitari (risorse Fondo europeo di sviluppo regionale – FESR), da  parte della Regione, per la realizzazione di condotte sottomarine lungo i  canali artificiali con più elevato carico inquinante del litorale  Domitio-Flegreo, per lo sversamento a fondale delle portate di magra. La previsione del finanziamento, secondo il ricorrente,  ammette implicitamente tali interventi, che sarebbero incompatibili con  la destinazione delle risorse pubbliche alla realizzazione di opere  funzionali a garantire una corretta depurazione delle acque reflue prima  dello scarico, e per questo contrasterebbe con la normativa nazionale e  comunitaria vigente in materia di acque, in particolare con la  direttiva 23 ottobre 2000, n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento  europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l’azione  comunitaria in materia di acque) e con la parte III del decreto  legislativo 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale), e  inoltre non terrebbe conto delle finalità istituzionali con le quali  sono stati fissati e condivisi obiettivi tra Comunità europea, Stato e  Regioni, finalizzati alla piena attuazione della stessa. 3.2. – La questione è fondata. 3.3. – Lo scopo della norma impugnata è l’allontanamento  in alto mare, mediante condotte sottomarine, delle acque reflue dei  canali affluenti, nel tratto di litorale Domitio-Flegreo, durante i  periodi di magra. Pare evidente che, trattandosi di rimedio provvisorio  in attesa della realizzazione di progetti per la depurazione delle acque  inquinate, lo scarico avvenga senza sottoporre i reflui a trattamento  alcuno. La disciplina degli scarichi idrici, come più in  generale la tutela delle acque dall’inquinamento, è ascrivibile alla  materia dell’ambiente, attribuita alla competenza legislativa esclusiva  dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (sentenze n.  246 e n. 251 del 2009). I margini di intervento, che la disciplina nazionale pur rimette alle Regioni, non giustificano tale tipo di misure. La norma impugnata è macroscopicamente derogatoria sia  alle norme di indirizzo comunitario sull’inquinamento del mare, sia alle  finalità perseguite e agli strumenti predisposti dall’azione statale a  tutela dell’ambiente, tanto da non potersi in alcun modo giustificare lo  strumento individuato dalla Regione sia pure in via interinale, e  neppure ritrovare un nesso tra la finalità che il comma 12 dell’art. 1  si propone («porre rimedio al fenomeno delle erosioni costiere»), e la  soluzione tecnica adottata (scarico in alto mare delle acque reflue dei  canali). La direttiva n. 2000/60/CE promuove (art. 1) la  protezione delle acque territoriali e marine, e la realizzazione degli  obiettivi degli accordi internazionali in materia, compresi quelli  miranti a impedire ed eliminare l’inquinamento dell’ambiente marino, con  l’eliminazione graduale degli scarichi, delle emissioni e delle perdite  di sostanze pericolose al fine ultimo di pervenire a concentrazioni,  nell’ambiente marino, vicine ai valori del fondo naturale per le  sostanze presenti in natura e vicine allo zero per le sostanze  sintetiche antropogeniche. Tra i requisiti minimi del programma di  misure adottande dagli Stati membri (art. 11), vi è l’assunzione delle  iniziative necessarie per non accrescere l’inquinamento delle acque  marine, precisandosi anche (paragrafo 6) che l’attuazione delle misure  adottate non può in nessun caso condurre, in maniera diretta o  indiretta, ad un aumento dell’inquinamento delle acque. La legislazione nazionale di settore appronta una tutela  delle acque attraverso una complessa attività di pianificazione, di  programmazione e di attuazione (art. 56 del d.lgs. n. 152 del 2006, c.d.  Codice dell’ambiente), al fine, fra l’altro, di proteggere le acque  territoriali e marine e realizzare gli obiettivi degli accordi  internazionali in materia, compresi quelli miranti a impedire ed  eliminare l’inquinamento dell’ambiente marino, allo scopo di arrestare o  eliminare gradualmente gli scarichi, e comunque impedirne ulteriori  deterioramenti (art. 73). Strumento fondamentale di programmazione,  attuazione e controllo è il Piano di tutela delle acque, per  l’individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale per i  corpi idrici, stabiliti dalle norme tecniche dello stesso Codice  dell’ambiente, che la Regione deve predisporre e aggiornare, in vista  del progressivo raggiungimento degli obiettivi di qualità (art. 76). La stessa disciplina degli scarichi è approntata dal  Codice dell’ambiente in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità  dei corpi idrici e comunque entro i valori limite previsti  nell’Allegato 5 alla parte III dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, che  sono inderogabili dalle Regioni (art. 101), con l’obbligo di  pretrattamento degli scarichi più nocivi. L’immersione in mare di  materiale è consentita (art. 109) limitatamente a materiali di escavo di  fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi, di inerti,  materiali geologici inorganici e manufatti al solo fine di utilizzo, ove  ne sia dimostrata la compatibilità e l’innocuità ambientale, di  materiale organico e inorganico di origine marina o salmastra, prodotto  durante l’attività di pesca effettuata in mare o laguna o stagni  salmastri. Rispetto a tale sistema, l’intervento legislativo della  Regione Campania (il cui Piano di tutela delle acque è fermo al 2007),  appare del tutto disarticolato dalla strategia elaborata a livello  nazionale. La dichiarata finalità di porre rimedio all’erosione  costiera è, verosimilmente, un pretesto per giustificare un intervento  legislativo in una materia di competenza regionale (qual è considerata  il ripascimento delle zone costiere: sentenza n. 259 del 2004): la  finalità è tecnicamente irrealizzabile con la misura individuata, che ha  il solo scopo di allontanare in mare i reflui stagnanti nei canali  litoranei in periodi di magra, in palese contrasto con la disciplina  statale a tutela dell’ambiente, che mira a impedire ed eliminare  l’inquinamento dell’ambiente marino, arrestando o eliminando  gradualmente gli scarichi. In definitiva, la norma è illegittima, per contrasto sia  con l’art. 117, primo comma, che con il secondo comma, lettera s),  della Costituzione. L’accoglimento della questione comporta l’assorbimento  della censura formulata con riferimento all’art. 117, secondo comma,  lettera e) Cost. 4. – L’art. 1, comma 16, della legge della Regione  Campania n. 2 del 2010, prevede l’istituzione da parte dei Comuni  ricompresi nel territorio dei parchi e nelle zone montane, di aree  cinofile, adibite esclusivamente all’addestramento ed allenamento dei  cani da caccia, e l’individuazione di strutture ove consentire  l’addestramento anche dei cani da pastore, da utilità e dei cani adibiti  alla pet-therapy ed al soccorso. La destinazione dei parchi e dei  territori montani a tali usi – al fine del rilancio dell’economia di  questi territori mediante il turismo cinofilo – avviene «anche d’intesa  con gli organi di direzione degli enti parco» ed è affidata a  cooperative di giovani residenti nei comuni interessati o ad  imprenditori agricoli, singoli o associati, ed alle associazioni  cinofilo-venatorie. La norma consente anche che in tali zone si  svolgano, nell’arco dell’anno, prove zootecniche per il miglioramento  delle razze canine da caccia e da pastore di cani iscritti all’anagrafe  canina. La disposizione contrasterebbe, ad avviso del  ricorrente, con la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle  aree protette), che all’art. 11 prevede che ogni parco, nel rispetto  delle sue caratteristiche, attraverso il proprio regolamento, disciplina  l’esercizio delle attività consentite entro il territorio di  competenza, fermo restando il divieto di tutte le attività e le opere  che possono compromettere la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti  naturali tutelati riguardo alla flora e alla fauna protette e ai  rispettivi habitat. 4.1. – La questione è fondata nei limiti di seguito precisati. 4.2. – Nel rispetto dei livelli uniformi, previsti dalla  legislazione statale nell’esercizio della competenza esclusiva in  materia di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma,  lettera s), Cost. – e tale è la materia delle aree protette, in cui la  legge n. 394 del 1991 costituisce fonte di principi fondamentali  (sentenze n. 20 e n. 315 del 2010; n. 366 del 1992) – la Regione  esercita la propria potestà legislativa, senza potervi derogare, mentre  può determinare, sempre nell’àmbito delle proprie competenze, livelli  maggiori di tutela (sentenze n. 193 del 2010 e n. 61 del 2009). Il territorio dei parchi, siano essi nazionali o  regionali, ben può essere oggetto di regolamentazione da parte della  Regione, in materie riconducibili ai commi terzo e quarto dell’art. 117  Cost., purché in linea con il nucleo minimo di salvaguardia del  patrimonio naturale, da ritenere vincolante per le Regioni (sentenza n.  232 del 2008). La disciplina statale delle aree protette, che inerisce  alle finalità essenziali della tutela della natura attraverso la  sottoposizione di porzioni di territorio soggette a speciale protezione,  si estrinseca non solo nelle limitazioni all’esercizio della caccia  (sentenza n. 315 del 2010), nella quale, indubbiamente, rientra  l’addestramento dei cani da caccia (sentenze n. 350 del 1991 e n. 165  del 2009), ma anche nella predisposizione di strumenti programmatici e  gestionali per la valutazione di rispondenza delle attività svolte nei  parchi, alle esigenze di protezione della flora e della fauna (sentenza  n. 387 del 2008). L’art. 11 della legge n. 394 del 1991, correttamente  individuato nel ricorso quale norma interposta, rimette la disciplina  delle attività compatibili entro i confini del territorio protetto, al  Regolamento del parco, che è adottato dall’Ente parco, e approvato dal  Ministro dell’ambiente, previo parere degli enti locali, e comunque  d’intesa con le Regioni. La disciplina contenuta nel Regolamento deve  attenersi ai parametri che la stessa legge prevede, tra i quali emerge  il divieto non solo di cattura, uccisione, danneggiamento, ma anche di  «disturbo delle specie animali» (comma 3, lettera a), in una concezione  integrata dell’habitat naturale, oggetto di protezione in ottemperanza  agli obblighi comunitari, per cui è fatto divieto di «perturbare le  specie animali protette, in particolare durante tutte le fasi del ciclo  riproduttivo o durante l’ibernazione, lo svernamento e la migrazione»  (art. 8, lettera d, decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre  1997, n. 357, Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE  relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali,  nonché della flora e della fauna selvatiche). Lo svolgimento di attività che pur riconducibili alle  esigenze di sviluppo economico del territorio, determinano, secondo la  previsione della legge impugnata, un particolare afflusso di persone e  di animali nel territorio del parco, va rimesso alla regolamentazione  tecnica dell’ente preposto all’area protetta (sentenza n. 108 del 2005),  secondo un procedimento in cui è pur richiesta la cooperazione delle  Regioni e degli enti locali. La previsione legislativa regionale diretta  allo svolgimento di attività che estrinsecandosi nell’addestramento di  cani, non solo da caccia, ed in prove zootecniche, vanno a interagire  con l’habitat naturale, non appare rispettosa dei livelli di tutela  dell’ambiente, contenuti nella normativa statale. Il rispetto dei livelli di tutela s’impone anche in  riferimento ai parchi regionali – la norma impugnata appare di  generalizzata applicazione – il cui regolamento è adottabile con legge  regionale (art. 22, lettera d, della legge n. 394 del 1991), tuttavia in  conformità ai principi di cui all’art. 11: tra questi rientrano i  divieti che la legge statale enuclea come condizioni essenziali per  l’esistenza stessa di aree di particolare conservazione della natura,  nonché la titolarità, nella promozione di iniziative atte a favorire la  crescita economica, sociale e culturale delle comunità residenti,  dell’organo di gestione del parco, in coordinamento con quelle delle  Regioni e degli enti locali (art. 25, comma 3). La creazione delle aree cinofile è invece rimessa  dall’art. 1, comma 16, della legge regionale della Campania,  direttamente ai Comuni, con la cooperazione solo eventuale («anche  d’intesa») degli organi del parco (sulla necessità di intesa, in tema di  protezione della natura, sentenze n. 437 del 2008 e n. 378 del 2007). In definitiva, la norma è illegittima, per contrasto con  l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione limitatamente  alla sua applicazione ai territori compresi nei parchi e non anche per  quanto riguarda le zone montane. L’accoglimento della questione comporta l’assorbimento  della censura formulata con riferimento all’art. 117, secondo comma,  lettera e), Cost., peraltro non motivata sul punto. 5. – L’art. 1, comma 25, della legge della Regione  Campania n. 2 del 2010 prescrive, per la dislocazione di centrali di  produzione di energia da fonti rinnovabili, il rispetto di una distanza  minima non inferiore a cinquecento metri lineari dalle aree interessate  da coltivazioni viticole con marchio DOC e DOCG, e non inferiore a mille  metri lineari da aziende agrituristiche ricadenti in tali aree. Secondo il ricorrente la norma individuerebbe aree non  idonee all’installazione di impianti di produzione di energia elettrica  da fonti rinnovabili, in contrasto con l’art. 12, comma 10, del decreto  legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva  2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da  fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità). Il  corretto inserimento degli impianti (particolarmente gli impianti  eolici) nel paesaggio è rimesso, secondo il ricorrente, all’approvazione  di linee guida adottate in Conferenza unificata, su proposta del  Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro  dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e  le attività culturali. La norma impugnata sarebbe, pertanto, lesiva  della competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente di cui  all’art. 117, secondo comma, lettera s) Cost., nonché del terzo comma  dello stesso articolo, contrastando con i principi fondamentali della  legislazione statale in materia di produzione, trasporto e distribuzione  nazionale dell’energia. 5.1. – La questione è fondata. 5.2. – Non è consentito alle Regioni, in assenza di  linee guida approvate in Conferenza unificata, porre limiti di  edificabilità degli impianti di produzione di energia da fonti  rinnovabili, su determinate zone del territorio regionale (sentenze n.  119 e n. 344 del 2010; n. 166 e n. 382 del 2009). La disciplina attiene alla materia di potestà  legislativa concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione di  energia», in cui le Regioni sono vincolate ai principi stabiliti dalla  legislazione statale (sentenze n. 124, n. 168, n. 332 e n. 366 del  2010). L’applicabilità, sancita dal comma 9 dell’art. 12 del  d.lgs. n. 387 del 2003, dei commi che lo precedono (e tra questi, del  comma 7), indipendentemente da quanto disposto dal comma 10 (ovvero  dall’emanazione delle linee guida statali) non vale a legittimare una  legiferazione regionale sui temi trattati dalle stesse disposizioni, in  particolare nel senso di vietare la realizzazione di impianti di  produzione di energia da fonti rinnovabili, in determinate aree del  territorio regionale. Il comma 9 vale a rendere comunque autorizzabili dalla  Regione gli impianti, indipendentemente dalla regolamentazione del  procedimento, che il comma 10 rimette all’approvazione della Conferenza  unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di  concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e  del mare e del Ministro per i beni e le attività culturali. Nel renderne  possibile l’istallazione in zona agricola, il comma 7 impone di tener  conto delle esigenze di sostegno del mercato agricolo e di  valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, di tutela delle  biodiversità e del paesaggio rurale. Si tratta di esigenze da vagliare  in sede di istruttoria per il rilascio dell’autorizzazione unica, nella  valutazione complessiva degli interessi variegati di cui è depositaria  la Conferenza dei servizi, non anche di valori che la Regione possa  autonomamente tutelare in via preventiva, con la generalità propria  dell’intervento legislativo, a discapito dell’esigenza di favorire la  massima diffusione degli impianti di energia rinnovabile. In conclusione, il primo periodo dell’art. 1, comma 25,  della legge della Regione Campania n. 2 del 2010 è illegittimo per  violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, mentre il  secondo periodo è mera disposizione a carattere finanziario di contenuto  autonomo. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la costituzione in giudizio della Regione Campania; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1,  comma 12, ultima parte, della legge della Regione Campania 21 gennaio  2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e  pluriennale della regione Campania – Legge finanziaria anno 2010); dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1,  comma 16, della legge della Regione Campania n. 2 del 2010,  limitatamente ai territori compresi nei parchi statali e regionali; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 25, primo periodo, della legge della Regione Campania n. 2 del 2010. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2011. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2011. Il Cancelliere F.to: MELATTI Allegato: ordinanza letta all’udienza del 25 gennaio 2011 ORDINANZA Rilevato che la Regione Campania risulta essersi costituita nel presente giudizio sulla base di decreto dirigenziale del Coordinatore dell’Avvocatura della Regione Campania e, dunque, in assenza di delibera di Giunta; che tale costituzione in giudizio è stata già dichiarata inammissibile in relazione ad altri capi del ricorso decisi da questa Corte con separata sentenza (n. 331 del 2010); che nella pronuncia citata da ultima questa Corte ha affermato il principio che, nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, anche la costituzione in giudizio, oltre che la proposizione del ricorso, deve essere deliberata dalla Giunta regionale, secondo quanto previsto dall’art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), cui si è adeguato l’art. 51 dello statuto (legge statutaria della Regione Campania 28 maggio 2009, n. 6); che, nelle more, la Regione Campania ha fatto pervenire una delibera di Giunta, datata 30 dicembre 2010, con la quale si ratifica la delibera del predetto responsabile e in udienza ha chiesto di essere ammessa alla discussione; che, a norma dell’art. 32, u.c., legge 11 marzo 1953, n. 87, i termini per la costituzione nel giudizio di costituzionalità, tanto in via incidentale tanto in via principale, devono essere considerati perentori (v. sentenze n. 364 del 2010; n. 160 del 2006; n. 397 del 2005); che, invero, la delibera adottata da un organo meramente amministrativo deve considerarsi radicalmente nulla in quanto non idonea a produrre qualsivoglia effetto, ivi compreso quello di interrompere il termine perentorio per la costituzione in giudizio; che, a causa di tale perentorietà, l’adozione da parte della Giunta di una delibera di cosiddetta “ratifica” della costituzione in giudizio deliberata dall’organo incompetente potrebbe produrre effetti solo a condizione che intervenga entro i termini perentori di costituzione in giudizio. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la costituzione in giudizio della Regione Campania. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente
 
 
 
 
                    




