 Cass. Sez. III n. 5039 del 9 febbraio 2012 (Ud. 17 gen. 2012)
Cass. Sez. III n. 5039 del 9 febbraio 2012 (Ud. 17 gen. 2012)
Pres. Teresi Est. Ramacci Ric. Di Domenico
Rifiuti.  Fertirrigazione
La pratica della “fertirrigazione”, la cui disciplina si pone in deroga alla normativa sui rifiuti, rispetto alla quale è autonoma ed indipendente e non richiede che gli effluenti provengano da attività agricola e siano riutilizzati nella stessa attività agricola, presuppone l'effettiva utilizzazione agronomica delle sostanze, la quale implica che essa sia di una qualche utilità per l'attività agronomica e lo stato, le condizioni e le modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale pratica, con la conseguenza che, in difetto, essa resta sottoposta alla disciplina generale sui rifiuti.
REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:         Udienza pubblica
 Dott. TERESI   Alfredo            - Presidente  - del 17/01/2012
 Dott. LOMBARDI Alfredo M.         - Consigliere - SENTENZA
 Dott. FIALE    Aldo               - Consigliere - N. 111/2012
 Dott. RAMACCI  Luca          - rel. Consigliere - REGISTRO GENERALE
 Dott. ANDRONIO Alessandro Maria   - Consigliere - N. 28138/2011
 ha pronunciato la seguente: 
SENTENZA
 sul ricorso proposto da:
 1) DI DOMENICO FRANCESCO N. IL 04/11/1974;
 avverso la sentenza n. 567/2009 TRIBUNALE di MACERATA, del  			30/09/2010;
 visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
 udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/01/2012 la relazione fatta dal  			Consigliere Dott. LUCA RAMACCI;
 Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Volpe Giuseppe che  			ha concluso per il rigetto.
 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 Il Tribunale di Macerata, con sentenza del 30 settembre 2010,  			riconosceva DI DOMENICO Francesco responsabile della  			contravvenzione di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, commi 1 e  			2, per avere, quale titolare di azienda agricola destinata ad  			allevamento di bufale da latte, depositato in modo incontrollato sul  			terreno rifiuti speciali non pericolosi consistiti in letame, senza  			alcun sistema di contenimento e raccolta dei liquami derivanti da  			fenomeni di dilavamento, condannandolo alla pena dell'ammenda.  			Avverso tale pronuncia il predetto proponeva appello, convertito in  			ricorso per cassazione.
 A sostegno del gravame, con un primo motivo, deduceva il vizio di  			motivazione, rilevando che il giudice, in maniera affrettata e con  			una indebita inversione dell'onere della prova, era pervenuto ad una  			affermazione di penale responsabilità escludendo la fondatezza della  			tesi difensiva secondo la quale le deiezioni animali provenienti  			dall'allevamento erano utilizzate per pratiche di fertirrigazione di  			terreni di proprietà dell'azienda.
 Con un secondo motivo deduceva la violazione di legge, osservando che  			il Tribunale aveva errato nel considerare le deiezioni animali quali  			rifiuti speciali non pericolosi poiché, secondo quanto disposto dal  			D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, lett. e), dette sostanze erano  			sottratte alla disciplina dei rifiuti in quanto "rifiuti agricoli".  			Aggiungeva che la sua azienda svolgeva attività agricola e  			riutilizzava il letame su terreni di proprietà per la  			fertirrigazione nell'ambito, quindi, di normali pratiche agricole.  			Con un terzo motivo deduceva il vizio di motivazione, lamentando che  			il giudice del merito aveva erroneamente valutato le dichiarazioni  			rese dai testimoni escussi e la documentazione acquisita sull'accordo  			delle parti.
 Insisteva, pertanto, per l'accoglimento del gravame.  			MOTIVI DELLA DECISIONE
 Il ricorso è inammissibile perché basato su motivi manifestamente  			infondati.
 Occorre preliminarmente ricordare che l'istituto della conversione  			della impugnazione, previsto dall'art. 568 c.p.p., comma 5, ed  			ispirato al principio di conservazione degli atti, determina  			unicamente l'automatico trasferimento del procedimento dinanzi al  			giudice competente in ordine alla impugnazione secondo le norme  			processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del  			giudizio di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l'atto  			convertito deve avere i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai  			fini della impugnazione che avrebbe dovuto essere proposta. (Sez. 1  			n. 2846, 9 luglio 1999 ed altre succ. conf.).
 Da ciò consegue l'inammissibilità del terzo motivo di gravame,  			attraverso il quale viene proposta una lettura alternativa delle  			risultanze processuali, non consentita in questa sede di  			legittimità.
 Invero, la consolidata giurisprudenza di questa Corte è orientata  			nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al  			giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa  			previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e  			coerenza dell'apparato argomentativo con riferimento a tutti gli  			elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in  			una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della  			decisione o l'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio  			in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad  			esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche  			apportate all'art. 606 c.p.p., dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 6^ n.  			10951, 29 marzo 2006; Sez. 6^ n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6^ n.  			23528, Sez. 3^ n. 12110, 19 marzo 2009).
 Il primo e secondo motivo di gravame possono invece essere esaminati  			congiuntamente, rilevando che la loro infondatezza risulta di  			macroscopica evidenza.
 Il Tribunale ha compiutamente indicato gli elementi fattuali sui  			quali viene fondata l'affermazione di penale responsabilità del  			prevenuto, titolare di un allevamento di bufale presso il quale  			personale del Corpo Forestale dello Stato rinveniva letame solido  			prelevato dalle vasche di raccolta depositato in modo incontrollato  			il quale, anche per effetto del dilavamento, confluiva attraverso  			diversi punti di immissione all'interno di un fosso.  			A fronte di tale ricostruzione dei fatti, il ricorrente deduce, in  			sintesi, che le deiezioni animali, escluse dal novero dei rifiuti,  			venivano raccolte in vasche a tenuta e che le quantità rinvenute in  			cumuli dovevano essere utilizzate per la fertirrigazione, pratica  			impedita dalle abbondanti piogge di quel periodo, causa anche del  			dilavamento.
 Si deve dunque verificare, in primo luogo, se le menzionate sostanze  			rientrino o meno nel novero dei rifiuti e, successivamente,  			qualificare l'attività svolta dai ricorrenti.
 L'allegato D alla Parte Quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006, (così  			come, in precedenza, l'allegato A al previgente D.Lgs. n. 22 del  			1997) indica tra i rifiuti, con il codice CER 02 01 06, "feci  			animali, urine e letame (comprese le lettiere usate), effluenti,  			raccolti separatamente e trattati fuori sitò".
 In via generale ed in presenza delle condizioni richieste dalla  			vigente disciplina, dette sostanze sono rifiuti.
 Tuttavia, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, pone alcuni limiti al  			campo di applicazione della parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006,  			concernente la disciplina dei rifiuti, come già faceva l'articolo 8  			dell'ormai abrogato D.Lgs. n. 22 del 1997.
 Per quel che qui interessa, il menzionato art. 8 disponeva, al comma  			1, lett. e) che erano esclusi dal campo di applicazione del decreto  			"le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre  			sostanze naturali non pericolose utilizzate nell'attività agricola  			ed in particolare i materiali litoidi o vegetali riutilizzati nelle  			normali pratiche agricole e di conduzione di fondi rustici e le terre  			da coltivazione provenienti dalla pulizia dei prodotti vegetali  			eduli".
 Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, nell'originaria formulazione,  			vigente fino al 12 febbraio 2008, escludeva, alla lett. e) "le  			carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre  			sostanze naturali non pericolose utilizzate nelle attività agricole  			ed in particolare i materiali litoidi o vegetali e le terre da  			coltivazione, anche sotto forma di fanghi, provenienti dalla pulizia  			e dal lavaggio dei prodotti vegetali riutilizzati nelle normali  			pratiche agricole e di conduzione dei fondi rustici, anche dopo  			trattamento in impianti aziendali ed interaziendali agricoli che  			riducano i carichi inquinanti e potenzialmente patogeni dei materiali  			di partenza".
 L'art. 185 subiva, nel tempo, ben cinque modifiche e, all'epoca dei  			fatti (accertati il 6 marzo 2008), al comma 1, lett. b), n. 5,  			disponeva che non rientravano nel campo di applicazione della  			disciplina sui rifiuti, "in quanto regolati da altre disposizioni  			normative che assicurano tutela ambientale e sanitaria, le carogne ed  			i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze  			naturali e non pericolose utilizzate nell'attività agricola",  			specificando ulteriormente, al comma secondo, che "possono essere  			sottoprodotti, nel rispetto delle condizioni dell'art. 183, comma 1,  			lett. p): materiali fecali e vegetali provenienti da attività  			agricole utilizzati nelle attività agricole o in impianti aziendali  			o interaziendali per produrre energia o calore, o biogas" (tale  			ultima esclusione era, peraltro, puramente eventuale poiché le  			sostanze indicate potevano rientrare tra i sottoprodotti possedendo  			non solo tutte le caratteristiche rigorosamente indicate dalla legge  			per tale tipologia, ma anche disponendo, contestualmente, degli  			ulteriori requisiti singolarmente indicati per ciascuna categoria tra  			quelle elencate).
 Prescindendo dall'esaminare gli ulteriori interventi modificativi,  			occorre infine ricordare che, nella formulazione attualmente in  			vigore, la medesima disposizione stabilisce l'esclusione dalla  			disciplina dei rifiuti, al comma 1, lett. f) di "materie fecali, se  			non contemplate dal comma 2, lett. b), paglia, sfalci e potature,  			nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso  			utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di  			energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non  			danneggiano l'ambiente ne' mettono in pericolo la salute umana". Il  			richiamato comma 2, lett. b), a sua volta, contempla l'esclusione, in  			quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi  			incluse le rispettive norme nazionali di recepimento dei  			"sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformali,  			contemplati dal regolamento (CE) n. 1774/2002, eccetto quelli  			destinati all'incenerimento, allo smaltimento in discarica o  			all'utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di  			compostaggio".
 Nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 205 del 2010, che ha  			apportato le ultime modifiche all'art. 185, viene richiamata  			l'attenzione, relativamente alle materie fecali, sulla distinzione  			tra il contenuto del comma 1, lett. f) e quello del comma 2, del  			medesimo articolo, lett. b), osservando come quest'ultimo riguardi i  			soli sottoprodotti di origine animale disciplinati dal menzionato  			Regolamento comunitario definiti dall'art. 2, comma 1, lett. a) del  			Regolamento con modalità tali da delimitarne l'ambito di  			applicazione. Da ciò consegue che, per le materie fecali, è  			attualmente necessaria una preventiva verifica finalizzata ad  			individuarne la collocazione entro i limiti fissati dal Regolamento  			1774/02 che ne determinerebbe l'esclusione dal novero dei rifiuti ai  			sensi dell'art. 185, comma 2, lett. b) e, nel caso in cui non operi  			la citata disposizione comunitaria, alla ulteriore verifica della  			sussistenza dei presupposti per l'esclusione fissati dell'art. 185,  			comma 1, lett. f).
 Dal confronto delle diverse formulazioni del D.Lgs. n. 152 del 2006,  			art. 185, emerge che è sempre costante nel tempo il riferimento alla  			provenienza, alle caratteristiche ed alla successiva utilizzazione  			delle materie fecali, cosicché, anche nel caso in esame, tali  			peculiarità risultano determinanti.
 Ciò posto, deve rilevarsi che, nella fattispecie, oggetto di esame  			da parte del giudice di prime cure è stata proprio la effettiva  			utilizzazione successiva del letame.
 A tale proposito, viene fatto riferimento alla pratica della  			fertirrigazione, per la quale deve farsi riferimento ad altre  			disposizioni del D.Lgs. n. 152 del 2006.
 Come ricordato anche in ricorso, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 112,  			(come, in precedenza, il D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 38, ora  			abrogato) consente "... l'utilizzazione agronomica degli effluenti di  			allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari, sulla  			base di quanto previsto dalla L. 11 novembre 1996, n. 574, nonché  			dalle acque reflue provenienti dalle aziende di cui all'art. 101,  			comma 7, lett. a), b) e c), e da piccole aziende agroalimentari,  			così come individuate in base al decreto del Ministro delle  			politiche agricole e forestali di cui al comma 2" previa  			comunicazione all'autorità competente ai sensi all'art. 75 del  			medesimo decreto.
 Tale attività, in base a quanto disposto dal secondo comma del  			menzionato art. 112, è disciplinata dalle regioni sulla base dei  			criteri e delle norme tecniche generali adottate con decreto del  			Ministro delle politiche agricole e forestali, di concerto con i  			Ministri dell'ambiente e della tutela del territorio, delle attività  			produttive, della salute e delle infrastrutture e dei trasporti,  			d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le  			regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.  			Con D.M. 7 aprile 2006, il Ministero delle Politiche agricole e  			forestali ha dettato "Criteri e norme tecniche generali per la  			disciplina regionale dell'utilizzazione agronomica degli effluenti di  			allevamento, di cui al D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 38".  			Il D.Lgs. n. 152 del 1999, al quale fa riferimento il predetto  			decreto ministeriale, è stato però abrogato dal D.Lgs. n. 152 del  			2006, art. 175, comma 1, lett. bb), entrato in vigore il 29 aprile  			2006. Il D.M. 7 aprile 2006 sebbene emanato prima del 29 aprile 2006,  			è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 maggio 2006,  			assumendo vigenza dopo che la norma al quale si riferiva (D.Lgs. n.  			152 del 1999, art. 38) era ormai abrogata, ma il difetto di  			coordinamento può essere risolto alla luce di quanto disposto del  			D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 170, comma 11, il quale stabilisce,  			senza ulteriori specificazioni relative al momento dell'entrata in  			vigore, che "fino all'emanazione di corrispondenti atti adottati in  			attuazione della parte terza del presente decreto, restano validi ed  			efficaci i provvedimenti e gli alti emanati in attuazione delle  			disposizioni di legge abrogate dall'art. 175".
 Ciò posto occorre ricordare che, come si è già avuto modo di  			precisare (Sez. 3^ n. 38411, 9 ottobre 2008), le disposizioni in  			materia di fertirrigazione hanno una portata derogatoria più ampia  			rispetto a quella prevista dalla disciplina sui rifiuti, rispetto  			alla quale è autonoma ed indipendente e non richiede che gli  			effluenti provengano da attività agricola e siano riutilizzati nella  			stessa attività agricola. Va inoltre tenuto conto, a tale proposito,  			della circostanza che, nella nozione di effluente da allevamento di  			cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 74, lett. v), non sono ricomprese  			le sole materie fecali, ma anche la miscela di lettiera e di  			deiezione di bestiame, anche sotto forma di prodotto trasformato.  			In considerazione della natura e condizione delle sostanze oggetto  			della richiamata disposizione si è ulteriormente precisato che la  			fertirrigazione non deve necessariamente effettuarsi attraverso lo  			scarico diretto tramite condotta, in quanto la deroga all'ordinaria  			disciplina è condizionata alla sola effettiva utilizzazione  			agronomica degli effluenti, in qualunque modo questa avvenga.  			L'ampiezza della deroga si è, inoltre, rilevata anche in  			considerazione del fatto che essa include tutte le fasi della  			gestione degli effluenti, ivi comprese quelle, intermedie, del  			deposito e del trasporto delle sostanze, come si ricava dalla nozione  			stessa di utilizzazione agronomica, definita dalla lett. p) del  			menzionato D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 74, come "la gestione di  			effluenti di allevamento, acque di vegetazione residuate dalla  			lavorazione delle olive, acque reflue provenienti da aziende agricole  			e piccole aziende agroalimentari, dalla loro produzione fino  			all'applicazione al terreno ovvero al loro utilizzo irriguo o  			fertirriguo, finalizzati all'utilizzo delle sostanze nutritive e  			ammendanti nei medesimi contenute" (la precedente lettera o)  			definisce l'applicazione al terreno come "l'apporto di materiale al  			terreno mediante spandimento e/o mescolamento con gli strali  			superficiali, iniezione, interramento").
 Così sommariamente inquadrata la disciplina di settore, occorre  			puntualizzare un dato essenziale e determinante.
 Presupposto imprescindibile per l'effettuazione della pratica della  			fertirrigazione è l'effettiva utilizzazione agronomica delle  			sostanze, la quale implica che l'attività sia di una qualche  			utilità per l'attività agronomica e lo stato, le condizioni e le  			modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale  			pratica.
 In altre parole, deve trattarsi di un'attività la cui finalità sia  			effettivamente il recupero delle sostanze nutritive ed ammendanti  			contenute negli effluenti e non può risolversi nel mero smaltimento  			delle deiezioni animali.
 Da ciò consegue la necessità che, in primo luogo, vi sia  			l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo  			spandimento, la quantità e qualità degli effluenti sia adeguata al  			tipo di coltivazione, i tempi e le modalità di distribuzione siano  			compatibili ai fabbisogni delle colture e, in secondo luogo, che  			siano assenti dati fattuali sintomatici di una utilizzazione  			incompatibile con la fertirrigazione quali, ad esempio, lo  			spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta, effettuato a  			fine ciclo vegetativo, oppure senza tener conto delle capacità di  			assorbimento del terreno con conseguente ristagno.  			Per quanto riguarda il regime sanzionatorio applicabile, va osservato  			che il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 133, comma 5, prevede un'ipotesi  			di illecito amministrativo, salvo che il fatto costituisca reato, per  			l'ipotesi di inosservanza delle disposizioni di cui all'art. 170,  			comma 7, fino all'emanazione della disciplina regionale di cui  			all'art. 112, comma 2, mentre l'art. 137, comma 14, stabilisce  			l'applicazione della sanzione penale per l'effettuazione  			dell'utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento di acque di  			vegetazione dei frantoi oleari, nonché di acque reflue provenienti  			da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari di cui all'art.  			112, al di fuori dei casi e delle procedure ivi previste, oppure in  			caso di inottemperanza al divieto o all'ordine di sospensione  			dell'attività e, infine, per l'utilizzazione agronomica al di fuori  			dei casi e delle procedure di cui alla normativa vigente.  			Da ciò consegue, come già rilevato (Sez. 3^ n. 38411, 9 ottobre  			2008, cit.) che, stante la presenza, nell'articolo 133, della  			clausola che fa salva l'applicabilità della sanzione penale,  			l'irrogazione della sanzione amministrativa è consentita "...solo  			per quelle violazioni delle disposizioni regionali che non consistano  			nell'esercizio della utilizzazione agronomica fuori dei casi e delle  			procedure previste, o nell'inizio della attività senza previa  			comunicazione all'autorità competente, ovvero mila inottemperanza al  			divieto o all'ordine di sospensione dell'attività".  			È appena il caso di precisare che la richiamata disciplina  			sanzionatoria presuppone, in ogni caso, lo svolgimento di  			un'attività effettivamente inquadrabile nella nozione di  			utilizzazione agronomica in precedenza delineata, come si ricava  			agevolmente dal tenore letterale della norma la quale, infatti, fa  			sempre riferimento a tale specifica attività, ancorché effettuata  			al di fuori dei casi e delle procedure stabilite, con la conseguenza  			che ogni altra condotta non rientrante nella richiamata tipologia  			andrà opportunamente collocata entro ambiti diversi, comprendenti  			anche specifiche ipotesi di reato, quali quelle previste in caso di  			illecita gestione di rifiuti.
 Alla luce delle considerazioni dianzi esposte va pertanto affermato  			il principio secondo il quale la pratica della "fertirrigazione", la  			cui disciplina si pone in deroga alla normativa sui rifiuti, rispetto  			alla quale è autonoma ed indipendente e non richiede che gli  			effluenti provengano da attività agricola e siano riutilizzati nella  			stessa attività agricola, presuppone l'effettiva utilizzazione  			agronomica delle sostanze, la quale implica che essa sia di una  			qualche utilità per l'attività agronomica e lo stato, le condizioni  			e le modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale  			pratica, con la conseguenza che, in difetto, essa resta sottoposta  			alla disciplina generale sui rifiuti.
 In considerazione dei dati fattuali scrutinati dal giudice del merito  			e delle disposizioni in precedenza richiamate la decisione impugnata  			risulta corretta, poiché risulta del tutto mancante la prova  			dell'applicabilità, nella fattispecie, tanto della deroga prevista  			per le materie fecali dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, quanto di  			quella prevista dalla disciplina della pratica della fertirrigazione.  			Non vi è stato peraltro, da parte del giudice, alcuna indebita  			inversione dell'onere della prova, poiché tanto l'art. 185, quanto  			le disposizioni in tema di fertirrigazione, presuppongono  			l'applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi  			generali in tema di rifiuti e, come tali, impongono a chi l'invoca  			l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per la loro  			applicazione (si vedano, ad esempio, con riferimento a disposizioni  			diverse Sez. 3^ n. 15680, 23 aprile 2010; Sez. 3^ n. 35138, 10  			settembre 2009; Sez. 3^ n. 37280, 1 ottobre 2008; Sez. 3^ n. 9794, 8  			marzo 2007; Sez. 3^ n. 21587, 17 marzo 2004;. Sez. 3^ n. 30647, 15  			giugno 2004).
 Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità e la condanna di  			ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché  			al versamento in favore della Cassa delle Ammende, di una somma  			determinata, equamente, in Euro 1.000,00 tenuto conto del fatto che  			non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto  			ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di  			inammissibilità". (Corte Cost. 186/2000).
 P.Q.M.
 Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al  			pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00  			in favore della Cassa delle Ammende.
 Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2012.
 Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2012
 
                    




