 Cass.Sez. III n. 4346 del 30 gennaio 2014 (Ud 17 dic 2013)
Cass.Sez. III n. 4346 del 30 gennaio 2014 (Ud 17 dic 2013)
Pres.Mannino Est.Ramacci Ric.Roda. 
Rifiuti.Autorizzazione integrata ambientale e violazione delle prescrizioni 
In tema di gestione dei rifiuti, risponde del reato previsto dall'art. 29-quattuordecies del D.Lgs. n. 152 del 2006, il titolare dell'autorizzazione integrata ambientale che viola le prescrizioni imposte dal provvedimento, non potendo in alcun caso l'inosservanza di esse ritenersi circoscritta nell'ambito delle mere irregolarità amministrative, in quanto la valutazione della offensività della condotta è stata già preventivamente effettuata dal legislatore. (Fattispecie in cui è stata ritenuta corretta la decisione impugnata che aveva giudicato penalmente rilevante la mancata individuazione e segnalazione delle zone di stoccaggio dei rifiuti, nonché l'omesso adeguamento al piano di monitoraggio e controllo per la verifica di funzionalità della rete fognaria interna e dei sensori di livello dei serbatoi).
  Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:        Udienza pubblica SENTENZA P.Q.M.REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE    
 SEZIONE TERZA 
 Dott. MANNINO   Saverio          - Presidente  - del 17/12/2013
 Dott. SAVINO    Mariapia         - Consigliere - SENTENZA
 Dott. RAMACCI   Luca        - rel. Consigliere - N. 3675
 Dott. ANDREAZZA Gastone          - Consigliere - REGISTRO GENERALE
 Dott. ANDRONIO  Alessandro Maria - Consigliere - N. 32926/2013
 ha pronunciato la seguente: 
 sul ricorso proposto da:
 RODA MARIA N. IL 13/04/1940;
 avverso la sentenza n. 346/2012 TRIB. SEZ. DIST. di IMOLA, del  13/06/2013;
 visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
 udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/12/2013 la relazione fatta dal  Consigliere Dott. RAMACCI LUCA;
 Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FRATICELLI Mario,  che ha concluso per il rigetto del ricorso;
 Udito il difensore Avv. VALENTI A..
 RITENUTO IN FATTO
 1. Il Tribunale di Bologna - Sezione Distaccata di Imola, con  sentenza del 13.6.2013 ha riconosciuto RODA Maria responsabile del  reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quattordecies, (così  qualificata l'originaria imputazione riferita al D.Lgs. n. 58 del  2005, art. 16) e l'ha condannata alla pena dell'ammenda perché,  quale legale rappresentante della "CALLEGARY ECOLOGY SERVICE s.r.l.",  non ottemperava a tutte le prescrizioni contenute nell'autorizzazione  dell'amministrazione provinciale di Bologna n. 128412 e successive  modifiche, in relazione al paragrafo D.2.3., punti 6 e 27,  concernenti l'individuazione e segnalazione delle zone di stoccaggio  dei rifiuti e l'adeguamento al piano di monitoraggio e controllo con  riferimento alla verifica delle tubazioni interrate della rete  fognaria interna degli impianti di stoccaggio dei rifiuti e la  verifica del funzionamento dei sensori di livello dei serbatoi (fatti  accertati il 12.11.2009), assolvendola, invece, perle residue  imputazioni.
 Avverso tale pronuncia la predetta propone ricorso per cassazione.  2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione dell'art. 552  c.p.p., lamentando l'insufficiente enunciazione del fatto  nell'imputazione, la quale farebbe esclusivo riferimento alle  prescrizioni violate senza indicazione delle specifiche condotte  materiali, non ritenendo sufficiente l'indicazione dei singoli punti  violati, senza indicazione dei paragrafi, stante l'ampiezza dei  contenuti dell'autorizzazione, evidenziando anche la obiettiva  incertezza sui contenuti manifestatasi nel corso del dibattimento.  Aggiunge di aver tempestivamente sollevato l'eccezione che veniva,  però, rigettata dal giudice del merito.
 3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione  in relazione alle considerazioni svolte dal giudicante circa  l'inosservanza della prescrizione di cui al punto 6 del paragrafo  D.2.3 dell'autorizzazione, ritenendole contraddittorie rispetto ad  atti del procedimento.
 4. Altrettanto faceva nel terzo motivo di ricorso con riferimento  alla violazione di cui al punto 27 del paragrafo D.2.3.  5. Con il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione di legge con  riferimento all'art. 5 c.p., evidenziando l'equivocità delle  prescrizioni imposte con l'autorizzazione.
 6. Con un quinto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in  relazione alla valutazione dell'elemento soggettivo del reato, in  quanto la sentenza, pur evidenziando che le condotte in contestazione  erano state materialmente poste in essere da altri soggetti, ne  attribuiva senza ulteriori specificazioni, anche con riferimento  all'elemento psicologico del reato, la responsabilità alla  rappresentante legale della società.
 7. Con un sesto motivo di ricorso denuncia la violazione dell'art. 49  c.p., sotto il profilo della concreta inoffensività dei fatti  contestati, rispetto ai quali l'affermazione di penale  responsabilità risulterebbe frutto di una interpretazione  formalistica delle prescrizioni riconosciuta dallo stesso giudice del  merito.
 Rileva, inoltre, che l'inoffensività della condotta sarebbe anche  desumibile dalla circostanza che le violazioni contestate consistono  in mere irregolarità, non incidenti sulla sostanziale osservanza  della prescrizione e non lesive del bene giuridico tutelato ancorché  individuato nell'esigenza di assicurare il controllo amministrativo  da parte dell'ente preposto.
 8. Con un settimo motivo di ricorso lamenta, infine, la violazione di  legge per la mancata concessione della sospensione condizionale della  pena.
 Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.  9. In data 29.11.2013 ha depositato in cancelleria nuovi motivi  deducendo: 1) l'erronea interpretazione del D.Lgs. n. 152 del 2006,  art. 29 quattuordecies, perché in contrasto con la normativa  dell'Unione Europea e, segnatamente, gli artt. 2 e 114 TFUE e con gli  artt. 3 e 71 della direttiva 2008/98/CE, chiedendone  un'interpretazione conforme da parte di questa Corte o, in subordine,  la disapplicazione, la proposizione di questione di legittimità  costituzionale o il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia;
 2)l'erronea l'erronea interpretazione del D.Lgs. n. 152 del 2006,  art. 29 quattuordecies, per contrasto con il principio di riserva di  legge di cui all'art. 25 Cost., comma 2 e con il principio di  legalità di cui all'art. 7 CEDU come interpretato dalla  giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo sotto il  profilo della "prevedibilità", sollevando questione di legittimità  costituzionale; 3) erronea interpretazione del D.Lgs. n. 152 del  2006, art. 29 quattuordecies, in contrasto con il principio di  offensività quale desumibile dell'art. 27 Cost., comma 3, art. 25  Cost., comma 2 e art. 13 Cost., sollevando questione di legittimità  costituzionale.
 CONSIDERATO IN DIRITTO
 10. Il ricorso è inammissibile.
 Occorre osservare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che  l'art. 522 c.p.p., comma 1, lett. c), dispone che il decreto di  citazione a giudizio deve contenere l'enunciazione del fatto, in  forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che  possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con  l'indicazione dei relativi articoli di legge.
 La giurisprudenza di questa Corte è unanimemente orientata nel  ritenere che l'imputazione è da ritenersi completa nei suoi elementi  essenziali quando il fatto sia contestato in modo da consentire la  difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (Sez. 4^ n. 38891, 4  novembre 2010; Sez. 4^ n. 34289, 11 agosto 2004; Sez. 1^ n. 12474, 17  dicembre 1994).
 11. Nella fattispecie, l'imputazione conteneva l'indicazione  specifica della norma violata, il riferimento alla posizione  giuridica dell'imputata ed all'autorizzazione le cui prescrizioni si  assumevano violate, individuandola anche con l'amministrazione che  l'aveva rilasciata ed il numero di protocollo, le prescrizioni  violate vengono indicate con riferimento al punto specifico del  relativo paragrafo in cui sono contenute e l'ulteriore indicazione  dell'oggetto del singolo punto quale, ad esempio, la "individuazione  e segnalazione di zone di stoccaggio".
 Si tratta, ad avviso del Collegio, di contestazione certamente  sintetica ma completa in tutti i suoi essenziali requisiti e che  sebbene non integrata con una più specifica indicazione delle  condotte accertate, non ha certo impedito all'imputata di svolgere  compiutamente la propria difesa.
 In effetti il richiamo a punti specifici dell'autorizzazione ed al  generico oggetto trattato da ogni singolo punto consentiva di  individuare compiutamente la contestazione che, peraltro, come emerge  dalla descrizione dei fatti in sentenza, altro non era se non il  risultato di un accertamento svolto, all'interno dell'azienda, in  sostanziale contraddittorio con il personale ivi presente, che vi ha  attivamente partecipato, prendendo diretta cognizione dei risultati e  rispondendo ai rilievi di volta in volta formulati.
 Inoltre, va rilevato che, in una delle ricordate pronunce (Sez. 4^ n.  34289, 11 agosto 2004), questa Corte aveva avuto modo di sottolineare  come la possibilità di articolare prove testimoniali dimostri la  piena comprensione da parte dell'imputato del thema decidendum e la  puntuale individuazione delle tesi da opporre alla ricostruzione dei  fatti proposta dall'accusa ed è ciò che è avvenuto anche nel caso  in esame.
 Risulta infatti dalla sentenza impugnata che la difesa ha avuto modo  di indicare propri testimoni, produrre documentazione e far  effettuare un accertamento tecnico da un perito che è stato poi  sentito nel corso dell'istruzione dibattimentale.  Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso appena  esaminato.
 12. Il secondo e terzo motivo di ricorso possono essere unitariamente  trattati perché riferiti entrambi a deduzioni non ammissibili in  questa sede di legittimità.
 Invero la ricorrente, pur lamentando il vizio di motivazione,  prospetta, in sostanza, una valutazione alternativa dei dati fattuali  già esaminati dal giudice del merito che non è consentita a questo  giudice di legittimità.
 È appena il caso di ricordare che la consolidata giurisprudenza di  questa Corte è orientata nel senso di ritenere che il controllo  sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta  circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo  accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo  con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo  e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto  posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di nuovi e  diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e  valutazione dei fatti (si vedano, ad esempio, limitatamente alla  pronunce successive alle modifiche apportate all'art. 606 c.p.p.,  dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 3^ n. 12110, 19 marzo 2009; Sez. 6^ n.  23528, 6 luglio 2006; Sez. 6^ n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6^ n.  10951, 29 marzo 2006).
 13. Nondimeno, la motivazione del provvedimento impugnato non  presenta alcun salto logico o manifeste contraddizioni.  Coerentemente, infatti, il Tribunale ha posto in evidenza, con  riferimento all'obbligo di individuazione delle zone di stoccaggio e  dei serbatoi/contenitori con appositi cartelli/targhe identificative  del rifiuto ivi contenuto, imposto dal paragrafo D.2.3, punto 6  dell'autorizzazione, che la violazione doveva ritenersi sussistente  stante l'inadeguatezza della etichettatura della sola zona come "Zona  1 A", disposta dall'azienda per la presenza di una sola tipologia di  rifiuto e non anche dei singoli serbatoi e ciò in quanto detta  etichettatura è funzionale alla corretta informazione sulla natura e  tipologia del rifiuto a tutti i soggetti che entravano a contatto con  i rifiuti, anche se estranei al reparto: altri dipendenti, gli stessi  controllori o, addirittura, soggetti estranei.
 Quanto all'ulteriore prescrizione violata (quella di cui al punto 27  del paragrafo D.2.3, che rinvia, a sua volta, al piano di  monitoraggio e controllo di cui alla Sezione D3), il Tribunale ha  evidenziato che, riguardo alla prevista verifica delle tubazioni  interrate della rete fognaria interna e degli impianti di stoccaggio  rifiuti e la verifica dei sensori di livello dei serbatoi (parr. D3  punti 4 e 5), il gestore non era stato in grado di esibire alcuna  documentazione e, analizzando le dichiarazioni dei singoli testimoni,  ivi compresi quelli indotti dalla difesa, ricostruisce in modo più  che esauriente la vicenda, pervenendo alla conclusione che la  specifica prescrizione sia stata effettivamente violata.  Il Tribunale ha riscontrato l'assenza di documentazione anche con  riferimento all'obbligo di monitorare i consumi dell'acqua prelevata  diversificando l'uso civile da quello delle attività di gestione dei  rifiuti (par. D.3 punto 7 tab. 12), nonché la mancata effettuazione  della richiesta diversificazione, mentre, riguardo all'obbligo di  registrazione mensile dei consumi di energia elettrica, da  effettuarsi distinguendo l'uso civile da quello industriale (par. D.3  punto 10, tab. 14), constatava, sempre sulla base delle emergenze  processuali, l'assenza di tale distinzione e, ancora una volta, la  mancanza di documentazione.
 Si tratta, a ben vedere, di argomentazioni che, per la loro  accuratezza, si sottraggono agevolmente alle censure formulate,  consistenti, come si è detto, in una personale lettura degli esiti  dell'istruzione dibattimentale volta a contrastare il percorso  giustificativo seguito dal giudice del merito.
 14. Anche l'infondatezza del quarto motivo di ricorso risulta di  macroscopica evidenza.
 Come si è appena visto, le prescrizioni dell'autorizzazione violate  dall'imputata non sono affatto "criptiche" come sostenuto nel motivo  di ricorso, peraltro formulato in maniera apodittica ed attraverso il  mero richiamo ad alcuni principi giurisprudenziali.  In ogni caso, è sufficiente ricordare che la buona fede che  sostanzialmente la ricorrente invoca non può certo essere indotta  dalla erronea conoscenza o dall'ignoranza della legge penale e deve  trarre origine da un "elemento positivo", inteso come circostanza che  induce nella convinzione della liceità della condotta e che può, ad  esempio, essere individuato nel comportamento dell'autorità  amministrativa, ovvero nel contenuto di un atto amministrativo.  Riguardo a tale ultimo aspetto, tuttavia, si è già avuto modo di  chiarire che l'elemento soggettivo del reato contravvenzionale non è  escluso dall'errore sull'estensione di un'autorizzazione rilasciata  per lo svolgimento di un'attività di gestione di rifiuti, perché si  tratta di errore sul precetto che non integra lo stato di "buona  fede" (Sez. 3^ n. 11497, 22 marzo 2011).
 Del resto, non va sottaciuto che l'imputata risulta professionalmente  inserita nel campo di attività della gestione dei rifiuti e sulla  stessa incombeva, pertanto, uno specifico obbligo di adeguata  informazione circa le disposizioni che regolano la materia, ivi  comprese quelle imposte con un atto autorizzatorio di particolare  rilievo quale l'autorizzazione integrata ambientale.  15. Palesemente infondato risulta pure il quinto motivo di ricorso.  Va in primo luogo rilevato che D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29  quattuordecies, comma 2, rivolge il precetto al possessore  dell'autorizzazione integrata ambientale che risulta essere, appunto,  l'imputata, in quanto legale rappresentante della "CALLEGARY ECOLOGY  SERVICE s.r.l.".
 Va inoltre ricordato quanto osservato dalla giurisprudenza di questa  Corte, in generale, per ciò che attiene l'illecita gestione di  rifiuti, ritenuta ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il  profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno  posto in essere la condotta vietata (Sez. 3^ n. 23971, 15 giugno  2011).
 Va peraltro osservato che la ricorrente non ha in alcun modo negato  il diretto espletamento dell'attività autorizzata ne', tanto meno,  ha opposto di aver specificamente delegato ad altri soggetti le  molteplici incombenze previste dall'autorizzazione integrata  ambientale rilasciata alla società da lei rappresentata.  Correttamente, dunque, il giudice del merito le ha attribuito la  responsabilità dell'inosservanza delle specifiche prescrizioni  dell'autorizzazione, peraltro all'esito di una puntuale analisi delle  singole condotte contestate, dalla quale emergono pacificamente i  profili di colpa che le caratterizzano, cosicché non può ritenersi  sussistente il vizio di motivazione denunciato.
 16. Quanto al sesto motivo di ricorso, occorre considerare la  particolare natura e le finalità delle disposizioni che sono state  ritenute violate.
 Le finalità dell'AIA sono ora indicate dal D.Lgs. n. 152 del 2006,  art. 4, comma 4, lett. c) e riguardano la prevenzione e la riduzione  integrate dell'inquinamento proveniente dalle attività indicate  all'allegato VIII. Si prevedono misure intese a evitare, ove  possibile, o a ridurre le emissioni nell'aria, nell'acqua e nel  suolo, comprese le misure relative ai rifiuti, per conseguire un  livello elevato di protezione dell'ambiente, salve le disposizioni  sulla valutazione di impatto ambientale, mentre le definizioni  relative alla materia sono integrate nell'art. 5.
 La specifica disciplina è invece contenuta nel Titolo 3-bis  appositamente inserito nel D.Lgs. n. 152 del 2006.
 I requisiti della domanda di autorizzazione e la relativa procedura  sono
 indicati negli artt. 29-ter e 29-quater introducendo, rispetto al  passato, sostanziali modifiche.
 In base al disposto dell'art. 5, comma 14, dell'ormai abrogato D.Lgs.  59 del 2005, l'autorizzazione sostituiva, ad ogni effetto, ogni altro  visto, nulla osta, parere o autorizzazione in materia ambientale,  previsti dalle disposizioni di legge e dalle relative norme di  attuazione, fatte salve la normativa contenuta nel D.Lgs. n. 334 del  1999, in tema di rischi da incidente rilevante e le autorizzazioni  ambientali previste dalla normativa di recepimento della direttiva  2003/87/CE. L'articolo citato stabiliva, inoltre, che  l'autorizzazione integrata ambientale sostituisse, in ogni caso, le  autorizzazioni indicate nell'elenco riportato nell'allegato 2.  Tale elenco, ove necessario, poteva essere modificato.  17. Analoga previsione è ora contenuta del D.Lgs. n. 152 del 2006,  art. 29 quater, comma 11, laddove si afferma che le autorizzazioni  integrate ambientali sostituiscono, ad ogni effetto, le  autorizzazioni riportate nell'elenco dell'allegato 9, secondo le  modalità e gli effetti previsti dalle relative norme settoriali. In  particolare, le autorizzazioni integrate ambientali sostituiscono la  comunicazione di cui all'articolo 216, ferma restando la possibilità  di utilizzare successivamente le procedure semplificate previste dal  capo 5^.
 L'elenco riportato nell'allegato è tuttavia diverso e più  restrittivo rispetto a quello del D.Lgs. 59 del 2005, cosicché  l'ambito di operatività della disposizione risulta più contenuto  rispetto al passato.
 Per il resto, la previgente disciplina è stata riprodotta, con  modifiche di carattere formale, negli artt. da 29 quinquies a 29  quattordecies senza peraltro apportare alcuna variazione all'impianto  sanzionatorio già previsto dal D.Lgs. n. 59 del 2005, art. 16, ed  ora contemplato dall'art. 29 quattordecies.
 Come osservato correttamente dal giudice del merito e rilevato in  precedenza anche da questa Corte (Sez. 3^ n. 18741, 16 maggio 2012,  non massimata), vi è una sostanziale continuità tra le diverse  disposizioni.
 18. Ciò posto, merita di essere ricordato che, come anche rilevato  in dottrina, la disciplina in esame, riguardante gli impianti  maggiormente inquinanti, è caratterizzata dal riferimento al  principio dell' "approccio integrato", di derivazione comunitaria, in  quanto, come evidenziando nei "considerando" 7 ed 8 delle Direttiva  96/61/CE sulla prevenzione e la riduzione integrate  dell'inquinamento, si ritiene che approcci distinti nel controllo  delle emissioni nell'aria, nell'acqua o nel terreno possano  "incoraggiare il trasferimento dell'inquinamento tra i vari settori  ambientali anziché proteggere l'ambiente nel suo complesso", mentre  lo scopo di un approccio integrato della riduzione dell'inquinamento  è "la prevenzione delle emissioni nell'aria, nell'acqua e nel  terreno, tenendo conto della gestione dei rifiuti ogniqualvolta  possibile e, altrimenti, la loro riduzione al minimo per raggiungere  un elevato livello di protezione dell'ambiente nel suo complesso".  In altre parole, attraverso il superamento del sistema settoriale,  mediante l'approccio integrato si opera una valutazione complessiva e  coordinata degli impatti ambientali di un insediamento finalizzata  anche ad evitare le conseguenze di fenomeni complessi dovuti al  contestuale rilascio di più agenti inquinanti.
 Se si tiene conto di tale significativo aspetto della disciplina in  esame, emerge chiaramente come il ricorso a prescrizioni estremamente  dettagliate e l'esigenza di un puntuale rispetto delle stesse siano  pienamente giustificati dalle finalità perseguite e anche una  eventuale valutazione sulla concreta offensività della condotta non  può prescindervi.
 Peraltro, una preventiva valutazione sulla gravità delle singole  violazioni è stata già effettuata dal legislatore, il quale ha  previsto la sanzione penale solo per alcune, ritenute più gravi (tra  le quali figura quella contestata alla ricorrente) ed altre,  evidentemente considerate di minor rilievo, per le quali è stata  ritenuta sufficiente la sanzione amministrativa.
 Considerati dunque tali aspetti, appare di tutta evidenza come le  prescrizioni imposte nel caso specifico non potevano certo esser  ritenute, come preteso in ricorso, una semplice formalità la cui  inosservanza resta circoscritta nell'ambito delle mere irregolarità,  trattandosi, invece, di disposizioni concernenti, evidentemente, la  sicurezza, come quelle relative alla identificazione dei rifiuti ed  al monitoraggio della tenuta delle tubazioni, ovvero il controllo  dell'attività svolta, nel caso di quelle concernenti il monitoraggio  dei consumi idrici e di energia elettrica.
 19. Per ciò che concerne, infine, il settimo motivo di ricorso, la  ricorrente non deduce di aver richiesto al giudice del merito la  concessione della sospensione condizionale della pena ne' tale  richiesta risulta dalle conclusioni rassegnate dal difensore e  riportate in sentenza ne', tanto meno, dal verbale di udienza.  Da ciò consegue che il giudice del merito non era affatto obbligato  a motivare la mancata concessione della sospensione condizionale  della pena, ne' ad esaminare la questione (Sez. 3^ n. 23228, 13  giugno 2012; Sez. 6^ n. 4374, 2 febbraio 2009 ed altre prec. conf).  20. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato  inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità - non potendosi  escludere che essa sia ascrivibile a colpa della ricorrente (Corte  Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) - consegue l'onere delle spese del  procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa  delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro  1.000,00.
 Ai sensi dell'art. 585 c.p.p., comma 4, l'inammissibilità  dell'impugnazione si estende ai motivi nuovi.
 Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al  			pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00  			in favore della Cassa delle ammende.
 Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2013.
 Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014
 
                    




