 Cass. Sez. III n. 27715 del 16 luglio 2010 (Cc 20 mag. 2010)
Cass. Sez. III n. 27715 del 16 luglio 2010 (Cc 20 mag. 2010)
Pres. Onorato Est. Franco Ric. Barbano
Urbanistica. Piano urbanistico
Il piano urbanistico generale, al pari di tutti gli atti amministrativi, è atto tipico e soggetto al principio di legalità, secondo il quale i provvedimenti amministrativi sono a numero chiuso ed hanno contenuti predeterminati dalla legge. D’altra parte, i piani regolatori sono per loro natura atti amministrativi generali a contenuto non provvedimentale ma normativo, cioè connotati dalla presenza di regole generali, e non da progetti architettonici. Il che conferma che un progetto approvato in variante non diventa per intero regola di piano, ma comporta soltanto l’integrazione del piano con la specifica variante richiesta su di esso dal progetto. Da ciò poi deriva che successive varianti al progetto comporteranno una nuova modifica al piano e richiederanno quindi una nuova variante al piano con la procedura concertativa non già se esse abbiano carattere «sostanziale» o «essenziale» rispetto al progetto (circostanza questa irrilevante ai fini che qui interessano) bensì qualora abbiano incidenza su quella specifica parte di piano la cui integrazione si era resa necessaria per l’approvazione del progetto originario (ovvero, ovviamente, su altre norme del piano)
 UDIENZA del 20.05.2010
SENTENZA N. 802
REG. GENERALE N. 576/2010
 REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 Sez. III Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
 1. Dott. Pierluigi Onorato                                Presidente
 2. Dott. Agostino Cordova                               Consigliere
 3. Dott. Aldo Fiale                                          Consigliere
 4. Dott. Amedeo Franco                                 (est.) Consigliere
 5. Dott. Luigi Marini                                        Consigliere
 ha pronunciato la seguente
 SENTENZA
 - sul ricorso proposto da Barbano Fabrizio;
 - avverso l'ordinanza emessa il 25.11.2009 dal tribunale del riesame di Savona;
 - udita nella udienza in camera di consiglio del 20 maggio 2010 la relazione  fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
 - udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale  dott. Vincenzo Geraci, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della  ordinanza impugnata;
 - udito il difensore avv. Paolo Gaggero;
 Svolgimento del processo
 Con l'ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Savona confermò il  provvedimento 4.11.2009 del GIP di Savona che aveva disposto il sequestro  preventivo di un cantiere e di un complesso immobiliare in relazione al reato di  cui all'art. 44, lett. c), d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, perché realizzato senza  un legittimo titolo edilizio. In particolare, secondo l'accusa, la proprietaria  aveva ottenuto il 16.12.2005 un legittimo permesso di costruire con approvazione  del progetto edilizio di variante allo strumento urbanistico a seguito della  procedura concertativa con indizione della conferenza di servizi prevista dalla  legge regionale, con la quale era stata autorizzata la demolizione e  ricostruzione non fedele dell'opera. In seguito però erano stati rilasciati due  ulteriori permessi di costruire relativi a varianti essenziali senza  l'attivazione della procedura concertativa (assenso del consiglio comunale e  conferenza di servizi) prevista per le varianti allo strumento urbanistico  generale; ed inoltre era stato approvato un progetto nel cui volume complessivo  non erano stati computati numerosi vani posti ai piani cantine e ai piani  abitabili, denominati piani tecnici o pertinenze o cantine.
 Osservò il tribunale del riesame:
- che il suo compito era limitato alla verifica della astratta possibilità di sussumere il fatto in una ipotesi di reato;
- che nella specie non emergeva la manifesta infondatezza della ipotesi di accusa;
- che infatti era astrattamente sostenibile che i due successivi progetti che recavano varianti essenziali al progetto iniziale dovessero essere approvati non con il solo permesso di costruire ma con una nuova procedura concertativa, come quella con la quale era stato approvato il progetto iniziale, dato che si era trattato di variazioni essenziali e sostanziali;
- che il tribunale non poteva assolutamente entrare nel merito della ipotizzata creazione di volumi non consentiti.
 L'indagato propone ricorso per cassazione deducendo:
 1) violazione dell'art. 324 cod. proc. pen. Lamenta che il tribunale del riesame  ha erroneamente ritenuto che il suo compito fosse limitato ad accertare la  astratta configurabilità del reato ed ha quindi omesso ogni verifica sulla  sussistenza del fumus del reato ipotizzato. Manca ogni esame ed ogni  motivazione sulle osservazioni della difesa sulla correttezza della procedura  seguita per il rilascio del titolo edilizio, sulla irrilevanza di eventuali  irregolarità procedurali in rapporto alla legittimità sostanziale dell'atto, e  sulla irrilevanza urbanistica dei volumi pertinenziali interrati. Il tribunale  non ha nemmeno esaminato l'accusa in relazione alle norme urbanistiche di  riferimento.
 2) violazione dell'art. 125 cod. proc. pen. per totale mancanza di motivazione  in quanto il tribunale si è limitato ad affermare la non manifesta infondatezza  della ipotesi accusatoria.
 3) violazione dell'art. 44 d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, e dell'art. 59 legge  reg. 36/97. Osserva comunque che è erronea la tesi dell'accusa secondo cui,  essendo stato rilasciato il permesso di costruire con la procedura concertativa  per la variante allo strumento urbanistico, anche i successivi permessi di  costruire in variante avrebbero richiesto una nuova variante urbanistica per le  modifiche architettoniche, pur a parità di volumi e superfici utili.  Innanzitutto, infatti, nel caso di approvazione di un progetto in variante di  piano, non per questo tutto il progetto diviene piano in ogni sua parte.  Altrimenti sarebbe sempre necessaria una variante urbanistica di piano per  qualsiasi modifica irrilevante urbanisticamente, come per i prospetti o le  componenti interne. Né si potrebbe ritenere necessaria una variante di piano per  le modifiche al progetto essenziali o sostanziali, perché con ciò si  introdurrebbe un elemento discriminativo assolutamente incerto. In realtà le  uniche variazioni che richiedono una variante di piano sono quelle che incidono  sulla parte di piano modificata perché il progetto potesse risultare adeguato ed  assentibile. Del resto i piani regolatori sono connotati dalla presenza di  regole generali e non da progetti architettonici. Nella specie, quindi, la  variante al piano è circoscritta al solo aspetto della ristrutturazione  architettonicamente non fedele senza aumenti di volume. Pertanto successivi  progetti in variante recanti diverse soluzioni architettoniche e costituenti  parimenti una diversa ricostruzione non fedele non necessitavano di una variante  urbanistica. Tutte queste considerazioni non sono state assolutamente esaminate  dal tribunale del riesame.
 4) violazione dell'art. 44 d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, perché in ogni caso il  vizio procedurale ipotizzato dall'accusa non sarebbe tale da inficiare  addirittura la sussistenza del titolo abilitativo.
 5) violazione dell'art. 44 d.p.R. 6 giugno 2001, n. 380, dell'art. 68 della  legge reg. 16/2008 e dell'art. 10 delle NA del PRG. Ricorda che aveva eccepito  che non sussisteva la ipotizzata illegittimità dei volumi accessori autorizzati  perché non computati tra le volumetrie urbanisticamente rilevanti. Invero, per  definire i volumi interrati ammissibili e la loro rilevanza urbanistica bisogna  fare riferimento alle norme attuative del PRG, alle quali nella specie le  contestate volumetrie accessorie e pertinenziali erano conformi. Il tribunale si  è illegittimamente rifiutato di esaminare tale decisiva questione, con  conseguente totale assenza di motivazione.
 Motivi della decisione
 Il ricorso è fondato perché effettivamente l'ordinanza impugnata è viziata da  assoluta mancanza di motivazione oltre che da errori di diritto.
 Il tribunale del riesame, invero, ha preliminarmente affermato che il suo  sindacato non potrebbe investire la concreta fondatezza dell'accusa ma dovrebbe  limitarsi alla verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto  contestato alla fattispecie di reato ipotizzata dall'organo dell'accusa, sicché  l'annullamento della misura cautelare sarebbe possibile solo laddove risulti  ictu oculi la difformità tra fatto contestato e reato ipotizzato. In altre  parole, secondo il tribunale del riesame, la sussistenza del fumus dovrebbe essere accertata solo sotto il profilo della congruità degli elementi  rappresentati, che non potrebbero essere censurati in punto di fatto per  apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che  andrebbero valutati così come proposti dal pubblico ministero. Pertanto, sempre  secondo l'ordinanza impugnata, il tribunale del riesame dovrebbe limitarsi a  valutare esclusivamente che l'ipotesi dell'accusa non sia manifestamente  infondata.
 Si tratta di affermazioni erronee sia perché, per disporre e mantenere la misura  cautelare reale, con conseguente compromissione del diritto costituzionalmente  tutelato, non é sufficiente che l'ipotesi accusatoria non sia manifestamente  infondata ma occorre che vi sia la prova del fumus del reato ipotizzato,  sia perché il sindacato del tribunale del riesame non può limitarsi alla mera  verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla  fattispecie di reato ipotizzata, ma deve appunto verificare la concreta  sussistenza del fumus del reato.
 Ed infatti, il diverso principio seguito dal tribunale del riesame, che pure a  volte é stato affermato in passato da una parte della giurisprudenza di questa  Corte, è stato però disatteso innumerevoli volte dalla giurisprudenza più  recente, alla quale questo Collegio aderisce, secondo cui il tribunale del  riesame, per espletare il ruolo di garanzia dei diritti costituzionali che la  legge gli demanda, non può avere riguardo solo alla astratta configurabilità del  reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e  coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi  probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi  offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla  sussistenza del fumus del reato contestato (cfr., ex plurimis,  Sez. I, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, Cantoni, m. 227.498; Sez. III, 16.3.2006 n.  17751; Sez. II, 23 marzo 2006, Cappello, m. 234197; Sez. III, 8.11.2006,  Pulcini; Sez. III, 9 gennaio 2007, Sgadari; Sez. IV, 29.1.2007, 10979, Veronese,  m. 236193; Sez. V, 15.7.2008, n. 37695, Cecchi, m. 241632; Sez. I, 11.5.2007, n.  21736, Citarella, m. 236474; Sez. IV, 21.5.2008, n. 23944, Di Fulvio, m. 240521;  Sez. II, 2.10.2008, n. 2808/09, Bedino, m. 242650; Sez. III, 12.1.2010, Turco;  Sez. III, 24.2.2010, Normando; Sez. III, 11.3.2010, D'Orazio).
 L'erroneo criterio di giudizio seguito dal tribunale del riesame, consistente in  una inusuale prognosi apodittica di non manifesta totale infondatezza della tesi  dell'accusa, ha quindi inficiato la validità dell'intera decisione, la quale si  è in realtà risolta in un sostanziale non consentito non liquet.
 In particolare, l'indagato aveva eccepito l'infondatezza della tesi accusatoria  secondo la quale, poiché il primo permesso di costruire era stato rilasciato con  la proceduta concertativa per la variante allo strumento urbanistico, allora  solo per questo motivo anche gli eventuali successivi permessi di costruire in  variante avrebbero richiesto tutti una nuova variante urbanistica, e ciò anche  se si fosse trattato di sole modifiche architettoniche a parità di volumi e  superfici utili. Il tribunale del riesame si è sostanzialmente rifiutato di  valutare questa eccezione limitandosi ad osservare che «non risulta del tutto  manifesta la infondatezza della accusa, in quanto, effettivamente, è  astrattamente sostenibile che i progetti ... apportino modifiche sostanziali al  progetto iniziale tali da richiedere una nuova procedura di variante al piano  regolatore generale». E ciò perché «non sembra illogico sostenere che anche le  successive variazioni essenziali al progetto di ricostruzione vengano approvate  seguendo la stessa procedura». E' appena il caso di rilevare che l'eccezione  difensiva involveva non già una questione di fatto, bensì una questione di  diritto che il tribunale del riesame aveva il compito di affrontare e risolvere  anche qualora potesse condividersi la tesi restrittiva sui limiti delle  valutazioni che gli spettano. Tale tesi restrittiva, invero, potrebbe al più  escludere alcuni accertamenti di fatto, ma non potrebbe certo in nessun caso  portare a ritenere che al giudice non spetti, in primo luogo, risolvere le  questioni di diritto ed accertare la correttezza giuridica e la legittimità  della ipotesi accusatoria sulla base della quale viene compressa la libertà  costituzionale. Il tribunale dei riesame avrebbe quindi dovuto stabilire quale  era l'esatta interpretazione delle norme che venivano in esame e non già  limitarsi ad affermare, peraltro del tutto apoditticamente, che  l'interpretazione del PM non era del tutto manifestamente infondata, o che era  astrattamente sostenibile, o che non era illogica.
 Ciò posto, rileva questa Corte che l'interpretazione acriticamente seguita (rectius:  non esclusa) dal tribunale del riesame è infondata. Non può infatti ritenersi  che, in caso di approvazione di un progetto in variante di piano, solo per  questo tutto il progetto divenga piano in ogni sua parte. Come esattamente  sostiene il ricorrente, infatti, l'atto amministrativo che approva il progetto  con la detta procedura può logicamente e giuridicamente scomporsi in due diverse  determinazioni con diversi effetti giuridici:
1) l'approvazione della variante al PRG, che ha effetto sotto il profilo urbanistico ed è integrativa del piano;
2) l'approvazione del progetto sotto il profilo edilizio, con il rilascio del titolo edilizio. In altre parole, a seguito della procedura, si verifica l'effetto di una variazione della disciplina di piano per l'aspetto relativamente al quale il progetto contrastava con il piano stesso e non anche l'effetto di determinare una sorta di anomala disciplina di piano regolatore integrata per il futuro da un progetto architettonico in tutte le sue componenti.
 Del resto, se così non fosse, ossia se si accettasse la tesi che tutte le volte  che il progetto necessita di una qualche variante al piano allora tutto il  progetto si trasfonde nel piano, si verificherebbero conseguenze paradossali ed  un anomalo assetto giuridico pianificatorio, giacché l'edificio approvato in  origine con una qualche (anche minima) variante al PRG dovrebbe per sempre  essere oggetto di variante urbanistica di piano (con la relativa procedura) per  qualsiasi tipo di modifica, anche di minore rilevanza, ed anche nei casi (come  quello in esame) di sola modifica dei prospetti e delle componenti interne.
 Né d'altra parte appare corretta la tesi secondo cui si dovrebbe distinguere tra  varianti essenziali o sostanziali e varianti non essenziali o non sostanziali  rispetto al progetto. A parte il fatto che il ricorso ad un criterio di  sostanzialità della variante sembrerebbe contrastare, per la sua  indeterminatezza e genericità, col principio della tassatività delle fattispecie  penali, va rilevato che sul piano logico la tesi esclusivamente formalistica  implicitamente accettata dal tribunale del riesame comporta invece che qualsiasi  progetto approvato in variante di piano diventerebbe necessariamente - solo in  forza della procedura adottata - per intero componente di piano.
 Al contrario, una interpretazione logica e sistematica porta a ritenere che, in  tali casi, il piano è integrato solo dalla modifica indotta dal progetto, sicché  le successive variazioni devono tener conto soltanto della disciplina  pianificatoria che ne è scaturita, ossia del piano come modificato per quella  specifica parte necessaria al fine di rendere il progetto adeguato ed  assentibile, e non già prestare ossequio per sempre all'intero progetto come se  fosse divenuto norma di piano.
 Non può quindi essere accettata la tesi dell'accusa secondo cui tutto il  progetto approvato con la procedura concertativa diventerebbe per ciò stesso  parte sostanziale ed integrante del PRG.
 L'interpretazione che qui si segue, d'altra parte, è conforme anche alla  considerazione che il piano urbanistico generale, al pari di tutti gli atti  amministrativi, è atto tipico e soggetto al principio di legalità, secondo il  quale i provvedimenti amministrativi sono a numero chiuso ed hanno contenuti  predeterminati dalla legge. D'altra parte, i piani regolatori sono per loro  natura atti amministrativi generali a contenuto non provvedimentale ma  normativo, cioè connotati dalla presenza di regole generali, e non da progetti  architettonici.
 Il che conferma che un progetto approvato in variante non diventa per intero  regola di piano, ma comporta soltanto l'integrazione del piano con la specifica  variante richiesta su di esso dal progetto. Da ciò poi deriva che successive  varianti al progetto comporteranno una nuova modifica al piano e richiederanno  quindi una nuova variante al piano con la procedura concertativa non già se esse  abbiano carattere «sostanziale» o «essenziale» rispetto al progetto (circostanza  questa irrilevante ai fini che qui interessano) bensì qualora abbiano incidenza  su quella specifica parte di piano la cui integrazione si era resa necessaria  per l'approvazione del progetto originario (ovvero, ovviamente, su altre norme  del piano).
 Nel caso di specie, prima della variante, il piano recava per la zona  interessata una regola che consentiva la ristrutturazione degli edifici mediante  demolizione e ricostruzione, ma solo con la modalità di un fedele recupero. La  variante si era resa necessaria per permettere che l'edificio potesse essere  recuperato mediante ristrutturazione non fedele mantenendo invariata la  volumetria (cd. ricomposizione volumetrica). L'effetto della variante di piano  era dunque quello che l'edificio in questione poteva, di li innanzi, essere  ristrutturato anche non fedelmente e che ogni ipotesi architettonica proposta (a  parità di volumi, superfici, destinazioni) sarebbe stata compatibile non la  nuova vigente regola di piano ed avrebbe potuto essere assentita con permesso di  costruire ed autorizzazione paesistica. In altre parole, avendo la variante di  piano permesso la ricomposizione volumetrica non fedele, qualsiasi tipologia  architettonica di ricomposizione volumetrica era divenuta compatibile con il  piano.
 L'integrazione del piano regolatore si era pertanto avuta soltanto in relazione  al profilo della possibile demolizione e ricostruzione con ricomposizione  volumetrica non fedele, senza aumenti di volume. Di conseguenza, la successiva  presentazione di un progetto di variante che recava diverse soluzioni  architettoniche e che costituiva parimenti una diversa ipotesi di  ristrutturazione non fedele senza aumento di volumetria, non incideva sulla  regola di piano così come in precedenza modificata ed integrata e non richiedeva  quindi una nuova variante urbanistica, ben potendo essere assentita dal punto di  vista edilizio e paesistico secondo le normali procedure.
 Il tribunale del riesame non ha in alcun modo contestato la tesi della difesa,  che aveva eccepito documentalmente che i nuovi progetti in variante riguardavano  soltanto modifiche architettoniche e non incidevano né sulla volumetria  dell'edificio né su altre regole di piano. Questo assunto di fatto deve quindi  considerarsi implicitamente ammesso dalla ordinanza impugnata, in considerazione  della sua assoluta mancanza di contestazione sul punto.
 Ne consegue che deve escludersi la sussistenza del fumus del reato  contestato sotto il profilo che i permessi di costruire in variante sarebbero  illegittimi perché non approvati con la procedura concertativa.
 Il reato edilizio era stato peraltro contestato anche sotto il profilo che nel  volume complessivo del progetto non erano stati computati vani denominati come  vani tecnici, o spazi pertinenziali o cantine. La difesa aveva eccepito che la  contestazione si basava su concetti generali, senza tener conto delle norme in  concreto applicabili nella fattispecie, ed in particolare di quelle di cui  all'art. 10 delle NTA. Sosteneva infatti la difesa che spetta al PRG definire i  volumi interrati ammissibili e la loro rilevanza urbanistica, dovendo altrimenti  presumersene, alla stregua della giurisprudenza amministrativa, l'irrilevanza.  La difesa aveva quindi specificamente evidenziato, anche sulla base di una  perizia tecnica, che le contestate volumetrie accessorie e pertinenziali erano  pienamente conformi alla norma di piano (art. 10), sia perché corrispondenti  alla nozione di pertinenza, attesa la loro strumentalità e la loro specifica  destinazione a cantina o ripostiglio o a vano tecnico e l'assenza dei requisiti  di abitabilità, sia perché interamente collocati al di sotto della quota di  riferimento.
 Orbene, a fronte delle specifiche e dettagliate eccezioni della difesa,  supportate anche da una perizia tecnica, l'ordinanza impugnata si è limitata ad  affermare: «ritenuto che questo tribunale non possa assolutamente entrare nel  merito di quanto affermato dal pubblico ministero e dal GIP in ordine alla  ipotizzata creazione di volumi non consentiti». Al contrario, compito precipuo  del tribunale era proprio quello di valutare il fumus della ipotesi  accusatoria anche con riferimento ai volumi tecnici, tenendo adeguatamente e  motivatamente conto delle considerazioni anche giuridiche svolte dalla difesa e  della perizia tecnica da essa depositata. Ritiene quindi il Collegio che questo  rifiuto di giudicare e questo sostanziale non liquet debbano comportare,  in mancanza assoluta di qualsiasi accertamento e di qualsiasi motivazione sulla  non ammissibilità dei volumi tecnici in questione alla stregua delle NTA, che  gli stessi da presumere irrilevanti e quindi ammissibili.
 In conclusione, la Corte ritiene che, a fronte di una siffatta ordinanza del  tribunale del riesame, non possa che disporsi l'annullamento senza rinvio della  stessa e del decreto di sequestro, con conseguente restituzione all'avente  diritto degli immobili sequestrati.
 Per questi motivi
 La Corte Suprema di Cassazione
 annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata ed il decreto di sequestro preventivo  disposto il 4.11.2009 dal GIP di Savona ed ordina restituirsi le cose in  sequestro all'avente diritto.
 Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 cod. proc. pen.
 Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 20 maggio  2010.
 
 DEPOSITATA IN CANCELLERIA il  16 lug. 2010
 
                    




