Presidente: Papa E. Estensore: Sensini MS. Imputato: P.G. in proc. Scotti.
(Annulla con rinvio, Trib. Pavia, 12 maggio 2005)
PRODUZIONE, COMMERCIO E CONSUMO - PRODOTTI ALIMENTARI (IN GENERE) - REATI - IN GENERE - Vendita di risi miscelati - Illecito amministrativo di cui alla legge 586 del 1962 - Reato di frode in commercio - Concorso reale - Fondamento.
Il reato di frode nell'esercizio del commercio, di cui all'art. 515 cod. pen., si pone in relazione di concorso reale con la disposizione di cui all'art. 2 della legge 5 giugno 1962 n. 586, divieto di immissione al consumo di miscele di risi, sanzionata amministrativamente, atteso che quest'ultima è posta a garanzia della qualità dei prodotti e della salvaguardia della salute, mentre la disposizione codicistica tutela la correttezza e lealtà commerciale. REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
    
			Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:         Udienza pubblica
			Dott. PAPA    Enrico              - Presidente  - del 05/12/2006
			Dott. ONORATO Pierluigi           - Consigliere - SENTENZA
			Dott. GENTILE Mario               - Consigliere - N. 1966
			Dott. FRANCO  Amedeo         - est. Consigliere - REGISTRO GENERALE
			Dott. SENSINI Maria Silvia        - Consigliere - N. 41149/2005
			ha pronunciato la seguente:
		 
			SENTENZA
			sul ricorso proposto da:
			PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO TRIBUNALE di PAVIA;
			nei confronti di:
			1) SCOTTI ANGELO DARIO, N. IL 26/01/1956;
			avverso SENTENZA del 12/05/2005 TRIBUNALE di PAVIA;
			visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
			udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. 
			SENSINI MARIA SILVIA;
			Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. PASSACANTANDO G. 
			che ha concluso per annullamento con rinvio;
			udito il difensore Avv. PALIERO Carlenrico (Milano). 
			SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
			Con sentenza in data 12/5/2005 il Tribunale di Pavia mandava assolto 
			Scotti Angelo Dario dall'imputazione di cui all'art. 515 c.p. con la 
			formula "perché il fatto non costituisce reato".
			Emergeva dalla sentenza che l'esercizio di vendita al dettaglio "Big 
			Market" di Bogara deteneva per la vendita confezioni di riso "vialone 
			nano semifino" provenienti dalla riseria di cui l'imputato era legale 
			rappresentante, confezioni che, secondo l'analisi effettuata 
			dell'Ente Nazionale Risi, in realtà contenevano una miscela di risi 
			composta per il 28% di riso cripto di qualità inferiore a quella 
			dichiarata. Il fatto suddetto, ad avviso del Tribunale di Pavia, 
			integrava l'illecito amministrativo previsto dalla L. 18 marzo 1958, 
			n. 325, art. 4, lett. a, con esclusione - in applicazione del 
			principio di specialità di cui all'art. 15 c.p. - del reato di cui 
			all'art. 515 c.p..
			Avverso la sentenza ricorreva per saltum il Procuratore Generale, 
			deducendo: 1) violazione della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3 
			(art. 606 c.p.p., lett. b) posto che il richiamato principio di 
			specialità non poteva, nel caso concreto, trovare applicazione in 
			virtù della deroga contenuta nel citato art. 9, comma 3, ricadendosi 
			- nella specie - sotto la disciplina della L. n. 283 del 1962, art. 
			5, lett. a; 2) violazione dell'art. 9 legge citata, comma 1, trovando 
			applicazione - il principio di specialità ivi previsto - solo 
			allorché la norma amministrativa e quella penale prevedano lo stesso 
			fatto: per contro, nella specie, si era in presenza di norme con 
			oggettività giuridica diversa. Si chiedeva l'annullamento della 
			sentenza. Con memoria difensiva ai sensi dell'art. 121 c.p.p. il 
			difensore dello Scotti evidenziava, in via preliminare, 
			l'infondatezza del ricorso del Procuratore Generale, stante la sua 
			evidente contraddittorietà "interna". Invero, nel primo motivo di 
			gravame, il ricorrente era partito dall'assunto di una identità di 
			oggetto giuridico tra la L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. a, e 
			l'art. 515 c.p., contestato nella specie. Solo in tal modo, infatti, 
			potevano trovare spiegazione le argomentazioni del Procuratore 
			Generale, che aveva negato l'applicabilità del principio di 
			specialità sulla base della norma derogatoria di siffatto principio 
			generale, fissata dalla L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3. Per 
			contro, nel secondo motivo del ricorso, si affermava che la norma 
			sugli alimenti e l'ipotesi disciplinata dall'art. 515 c.p. avevano 
			diversa oggettività giuridica. Evidente, pertanto, la 
			contraddittorietà dei due motivi. Passando all'esame nello 
			specifico, argomentava la difesa che l'errore che viziava la prima 
			censura concerne va la stessa identificazione delle fattispecie 
			ipotizzate in situazione di conflitto di norme. Invero, l'imputazione 
			riguardava il delitto di frode in commercio; la sentenza impugnata 
			aveva ravvisato un concorso di norme tra tale delitto e l'illecito 
			amministrativo di cui alla L. n. 325 del 1958, art. 4, lett. a) e 
			art. 13, qualificando tale concorso come "apparente" alla stregua 
			della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 1. Una eventuale applicazione 
			della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3, appariva priva di 
			qualunque presupposto per due ordini di ragioni: in primo luogo, una 
			norma derogatoria in malam partem deve intendersi sempre di stretta 
			interpretazione e mai applicabile in via analogica; nella specie, la 
			norma in questione faceva riferimento alla L. n. 283 del 1962, artt. 
			5, 6, e 12, fattispecie mai contestate nel presente processo. La 
			seconda ragione era rappresentata dal fatto che sia la fattispecie 
			effettivamente contestata - cioè quella di cui all'art. 515 c.p. - 
			sia la norma evocata dal Procuratore Generale (L. n. 283 del 1962, 
			art. 5) erano entrambe fattispecie di natura omogenea e penale, 
			mentre la L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3 disciplina, in chiave 
			derogatoria, il concorso tra norma penale e norma sanzionatoria 
			amministrativa, vale a dire tra fattispecie eterogenee, l'una penale 
			e l'altra amministrativa.
			Infondato doveva ritenersi anche il secondo motivo del gravame del 
			Procuratore Generale. Una volta esclusa l'applicabilità della L. n. 
			689 del 1981, art. 9, comma 3, restava aperta la possibilità di 
			applicare la L. citata, art. 9, comma 1, come esattamente fatto dal 
			Giudice di prime cure. Le censure del Procuratore Generale avevano 
			per oggetto la presunta diversità dei fatti contemplate dalle due 
			norme violate, trattandosi di norme con oggettività giuridica 
			diversa e, pertanto, escluse dalla applicazione dell'art. 9. Un 
			simile argomentare doveva ritenersi, però, infondato, apparendo del 
			tutto congetturale l'interpretazione, proposta nel ricorso, delle due 
			oggettività giuridiche. Al contrario, tra l'art. 515 c.p. e la 
			disposizione di cui alla L. n. 325 del 1958, artt. 4 e 13, doveva 
			ritenersi sussistente un concorso "apparente" di norme e che norma 
			speciale - e, dunque, prevalente - doveva ritenersi quella di cui 
			all'art. 13, più specifica rispetto a quella codicistica, anche per 
			il fatto che - strutturalmente - meglio si attagliava all'attività 
			contestata nel caso concreto. Si chiedeva il rigetto del ricorso del 
			Procuratore Generale. Il ricorso, per contro, è fondato e va accolto 
			per quanto di seguito esplicitato. Pur dovendosi convenire con la 
			difesa dello Scotti - come perspicuamente dalla stessa osservato - 
			che il primo motivo del ricorso poggia su un evidente equivoco in cui 
			il Procuratore Generale è incorso, concernente la stessa 
			identificazione delle fattispecie ipotizzate in situazione di 
			conflitto, posto che la norma derogatoria, tra l'altro, derogatoria 
			in malam partem e, dunque, di stretta interpretazione in ogni caso 
			insuscettibile di applicazione analogica, è rigorosamente riferita a 
			tre specifiche disposizioni legislative, vale a dire la L. n. 283 del 
			1962, artt. 5, 6 e 12, fattispecie mai contestate nel presente 
			procedimento, la fondatezza del secondo motivo di censura è di per 
			sè assorbente, e comunque tale da contrastare le contrarie 
			argomentazioni difensive. Invero, il principio di specialità cui fa 
			riferimento il più volte richiamato art. 9, comma 1, può trovare 
			applicazione solo allorquando la disposizione penale e quella 
			prevedente una sanzione amministrativa puniscano "uno stesso fatto". 
			Nella specie, si osserva che la L. n. 325 del 1958, art. 4 (nel testo 
			novellato dalla L. 5 giugno 1962, n. 586, art. 2), recita 
			testualmente: "È vietato porre in vendita o comunque immettere al 
			consumo, per l'alimentazione umana: miscele di risi superfini, fini, 
			semifini e comuni o originari; per i primi tre gruppi è vietata la 
			miscela di varietà anche se appartenenti allo stesso gruppo. Le 
			miscele di risi appartenenti a varietà del gruppo "Superfino", 
			"Fino", "Semifino" o varietà non classificate oppure a quelle del 
			gruppo comune o originario sono consentite, purché vendute con la 
			sola indicazione di "Riso Comune sottotipo", ovvero " Riso originario 
			sottotipo", da riportarsi sulla confezione e sui cartellini con 
			caratteri ben visibili, di formato non inferiore ad un centimetro di 
			altezza".
			Raffrontando tale fattispecie con quella prevista dall'art. 515 c.p., 
			si evince, come primo dato, la diversa materialità delle due norme a 
			confronto. Infatti, mentre l'ambito di operatività della norma 
			speciale va individuato nel divieto di porre in vendita e, comunque, 
			di immettere nel consumo miscele di risi superfini, fini, semifini e 
			comuni o originari, tranne l'ipotesi in cui le stesse siano vendute 
			con la indicazione di "Riso comune sottotipo" ovvero di "Riso 
			originario sottotipo", da riportarsi sulla confezione, l'elemento 
			materiale del reato di cui all'art. 515 c.p. postula la consegna, 
			nell'esercizio del commercio, di una cosa diversa da quella pattuita 
			e dichiarata. Da ciò emerge che le due disposizioni in esame 
			riguardano condotte diverse, presupponendo, la fattispecie 
			codicistica, l'esercizio di un'attività commerciale o di uno spaccio 
			aperto al pubblico, nel cui ambito di operatività viene posta in 
			essere la condotta censurata dell'aliud pro alio, laddove la 
			disposizione speciale sanziona (amministrativamente) la consegna di 
			un prodotto, qualitativamente diverso, come genuino. L'ontologica 
			diversità tra le riferite condotte può comportare, tra l'altro, il 
			verificarsi dell'una senza la ricorrenza degli estremi dell'altra: si 
			pensi, ad esempio, al caso non infrequente in cui la consegna di 
			miscele di riso vietate intervenga tra privati, al di fuori 
			dell'esercizio di un'attività commerciale. Di certo, in tal caso, 
			non ricorrerà la fattispecie di cui all'art. 515 c.p., il quale 
			richiede che la consegna di una cosa mobile per un'altra ovvero di 
			una cosa mobile diversa per origine, provenienza, qualità o 
			quantità da quella dichiarata o pattuita, intervenga nell'ambito di 
			un'attività commerciale ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, ma 
			sicuramente sussistente sarà la violazione di cui alla L. n. 325 del 
			1958, art. 4. Come pure sussisterà la sola violazione amministrativa 
			nel caso in cui non vi sia divergenza tra quanto dichiarato ed il 
			contenuto del prodotto consegnato, non essendovi spazio, neppure in 
			tal caso, per la operatività del disposto di cui all'art. 515 c.p.. 
			Ora, poiché il concorso apparente di norme presuppone, in virtù del 
			principio di "specialità" che la norma incriminatrice speciale 
			presenti necessariamente tutti gli elementi costitutivi di quella 
			generale, oltre a quelli specializzanti, le considerazioni sopra 
			svolte consentono di escludere un tale rapporto tra le due norme 
			richiamate, rivelandosi conclusivo il fatto che l'una può ritenersi 
			integrata senza che, necessariamente, sussista anche l'altra. 
			Va, inoltre, evidenziato - secondo il consolidato orientamento di 
			questa Corte - che le due previsioni normative si pongono in una 
			relazione di concorso reale (non apparente) per la diversa 
			obiettività giuridica e per il diverso interesse protetto: garanzia 
			della qualità dei prodotti venduti e della salvaguardia della salute 
			pubblica nel caso della disposizione speciale; tutela della 
			correttezza e della lealtà commerciale, nel caso disciplinato 
			dall'art. 515 c.p. (cfr., in termini, Cass. Sez. 3^, sent. n. 7318 
			del 2000, Godino; conf. Cass. Sez. 3^ sent. n. 1686 del 1998, 
			Abrate).
			Anche i beni giuridici tutelati, dunque, non soltanto non sono 
			identici, ma nemmeno omogenei, con la conseguenza che - neppure sotto 
			tale aspetto - può trovare applicazione il principio di specialità 
			fissato dalla L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 1. Conforta tale 
			orientamento l'ulteriore previsione della circostanza aggravante di 
			cui all'art. 517 bis c.p., introdotto dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 
			507, art. 5, nel contesto della depenalizzazione, che aumenta la pena 
			prevista dagli artt. 515, 516 e 517 c.p. nell'ipotesi di alimenti o 
			bevande protette, garantendo una tutela specifica aggiuntiva rispetto 
			a quella delle corrispondenti violazioni amministrative, delle quali, 
			dunque, presuppone il concorso.
			Il ricorso del Procuratore Generale è, dunque, fondato e la sentenza 
			va annullata, con trasmissione degli atti al giudice a quo per un 
			nuovo giudizio.
			Secondo quanto già argomentato da questa Sezione circa il regime 
			processuale del presente ricorso (cfr. Cass. Sez. 3^, 29/11/2006, 
			Imberti), gli atti vanno trasmessi alla Corte di Appello di Milano 
			per nuovo esame.
			P.Q.M.
			LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
			annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di 
			Milano.
			Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2006.
			Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2007
		
 
                    




