 Cass. Sez. III n. 41070 del 11 novembre 2011 (Ud. 7 lug. 2011)
Cass. Sez. III n. 41070 del 11 novembre 2011 (Ud. 7 lug. 2011)
Pres. Ferrua Est. Amoresano Ric. Saccone ed altro
Beni Culturali. Impossessamento e detenzione da parte dei privati
Per |'impossessamento illecito di beni appartenenti allo Stato, non è necessario che i beni siano qualificati come tali da un formale provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche dell'oggetto, non essendo richiesto neppure un particolare pregio. Non occorre, pertanto, alcun provvedimento formale che dichiari l'interesse artistico, storico, archeologico delle cose di cui il privato sia stato trovato in possesso, quando quest'ultimo non dimostri di esserne legittimo proprietario, sicché si possa affermare, anche sulla base di adeguati elementi indizianti, che gli stessi sono stati oggetto di ritrovamento ed essendo, peraltro, sufficiente l'accertamento dei requisiti culturali del bene.
REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:        Udienza pubblica
 Dott. FERRUA    Giuliana         - Presidente  - del 07/07/2011
 Dott. PETTI     Ciro             - Consigliere - SENTENZA
 Dott. TERESI    Alfredo          - Consigliere - N. 1609
 Dott. AMORESANO Silvio           - Consigliere - REGISTRO GENERALE
 Dott. GAZZARA   Santi            - Consigliere - N. 50687/2010
 ha pronunciato la seguente: 
SENTENZA
 sul ricorso proposto da:
 1) Saccone Francesco nato il 5.4.1938;
 2) Leanza Vittorio nato il 2.9.1956;
 avverso la sentenza del 29.6.2010 della Corte di Appello di  			Caltanisetta;
 sentita la relazione fatta dal Consigliere Silvio Amoresano;
 sentite le conclusioni del P.G. dr. Maria Giuseppina Fodaroni, che ha  			chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi.
 OSSERVA
 1) Con sentenza in data 29.6.2010 la Corte di Appello di Caltanisetta  			confermava la sentenza del Tribunale di Enna, in composizione  			monocratica, del 16.10.2008, con la quale Leanza Vittorio e  			Saccone Francesco erano stati condannati il primo alla pena  			(sospesa) di mesi 6 di reclusione ed Euro 100,00 di multa ed il  			secondo alla pena di mesi 7 di reclusione ed Euro 120,00 di multa per  			il reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 176, così qualificata  			l'originaria imputazione di cui all'art. 648 c.p.p..  			Premetteva la Corte che, in data 16.4.2002, i Carabinieri del Nucleo  			Tutela Patrimonio Culturale di Palermo, a seguito di perquisizioni  			domiciliari, avevano rinvenuto nell'abitazione del Leanza due  			"unguentari", oltre che frammenti di altri unguentari, e  			nell'abitazione del Saccone diciassette monete non autentiche,  			riproducenti antiche monete greche e puniche, un oggetto di metallo  			ossidato di presumibile antica fattura. A seguito di una consulenza  			tecnica da parte della dr.ssa Greco della Sovrintendenza di Enna  			era stato accertato che la medaglietta rinvenuta nell'abitazione del  			Saccone e gli unguentari trovati nell'abitazione del Leanza erano  			di interesse archeologico.
 Tanto premesso, la Corte territoriale, nel disattendere i motivi di  			appello, rilevava che, essendo stato accertato l'interesse  			archeologico, era irrilevante, secondo il costante orientamento della  			giurisprudenza di legittimità, la emissione di un provvedimento  			amministrativo. Essendo stato accertato l'interesse archeologico, non  			era necessario, poi, disporre perizia tecnica. Infine, non era stata  			data alcuna prova della legittima provenienza dei beni archeologici  			rinvenuti e del loro possesso ultratrentennale.
 2) Ricorre per cassazione Saccone Francesco, a mezzo del difensore,  			denunciando la violazione di legge ed il vizio di motivazione della  			sentenza impugnata.
 La sentenza è nulla per violazione del principio di correlazione tra  			contestazione (art. 648 c.p.) e condanna (D.Lgs. n. 42 del 2004, art.  			176), trattandosi di due condotte e/o fatti storici completamente  			diversi.
 Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale per la  			configurabilità del reato di cui all'art. 176 è necessario che i  			beni siano qualificati come di interesse da un formale provvedimento  			amministrativo. Peraltro, le incertezze mostrate dal consulente,  			dr.ssa Greco, rendevano insussistente la prova dell'interesse  			archeologico del reperto rinvenuto nell'abitazione del ricorrente,  			per cui risultava necessaria una perizia tecnica (richiesta ma,  			immotivatamente, non disposta).
 La prova, poi, della illegittima provenienza dei beni di interesse  			archeologico non può che essere a carico della pubblica accusa, per  			cui anche sotto tale profilo si imponeva l'assoluzione quanto meno ex  			art. 530 cpv. c.p.p..
 Infine, il reato ascritto doveva essere dichiarato estinto per  			amnistia o per prescrizione. In particolare, secondo il giudice di  			primo grado, i periodi di sospensione per anni 1, mesi 4 e 23 giorni  			impedivano la declaratoria di estinzione. Con l'atto di appello  			veniva evidenziato che era stato considerato anche un periodo (dal  			27.1.2005 al 2.2.2006) in cui la sospensione non era stata disposta  			dal giudice del dibattimento.
 Su tale rilevo la Corte ha omesso di pronunciarsi.
 2.1) Ricorre per cassazione anche Leanza Vittorio, a mezzo del  			difensore, denunciando la violazione di legge in relazione al D.Lgs.  			n. 42 del 2004, art. 10, comma 3, non risultando un provvedimento  			amministrativo di accertamento del rilevante interesse archeologico.  			In ogni caso non vi è prova che i reperti rinvenuti avessero tale  			interesse.
 Denuncia, altresì, la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n.  			42 del 2004, art. 176, non essendo stata fornita la prova (incombente  			sulla pubblica accusa) della illecita provenienza dei reperti.  			Deduce, infine, l'intervenuta prescrizione del reato, avendo il  			Giudice di primo grado indebitamente tenuto conto della sospensione,  			non disposta in dibattimento, dal 27.1.2005 al 2.2.2006.  			3) I ricorsi sono manifestamente infondati.
 3.1) Il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 176 sanziona penalmente  			chiunque si impossessi di beni culturali indicati nell'art. 10  			appartenenti allo Stato ai sensi dell'art. 91.
 È vero che l'art. 10, comma 3 richiamato dall'art. 176 definisce  			beni culturali altresì le cose mobili e immobili che presentano  			interesse artistico, storico archeologico....particolarmente  			importante..., appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al  			comma 1 (vale a dire Stato, Regioni ed altri Enti pubblici o persone  			giuridiche). Risulta però, chiaramente, dal testo normativo che è  			richiesto un qualificato interesse archeologico, culturale, storico  			soltanto per i beni appartenenti a privati, ma non per quelli  			appartenenti allo Stato.
 Per la configurabilità quindi del reato di cui all'art. 176,  			trattandosi di beni per legge appartenenti allo Stato, non è  			necessario che essi abbiano un interesse culturale qualificato, ne'  			che siano qualificati come tali nel provvedimento amministrativo di  			cui all'art. 13, medesimo D.Lgs.. Va ribadito, quindi, l'indirizzo  			interpretativo, già formatosi sotto la vigenza dell'abrogato D.Lgs.  			29 ottobre 1999, n. 490 (Cass. sez. 3 200347922, Petroni, RV226870;
 sez. 3, 200145814, Cricelli, RV 220742; cass. sez. 3 200142291,  			Ucciardello, RV 220626) ed anche con riferimento al D.Lgs. n. 42 del  			2004 (Cass. sez. 3 n. 39109 del 2006, ric. Palombo), secondo cui per  			l'impossessamento illecito di beni appartenenti allo Stato, non è  			necessario che i beni siano qualificati come tali da un formale  			provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la  			desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche  			dell'oggetto, non essendo richiesto neppure un particolare pregio.  			Non occorre, pertanto, alcun provvedimento formale che dichiari  			l'interesse artistico, storico, archeologico delle cose di cui il  			privato sia stato trovato in possesso, quando quest'ultimo non  			dimostri di esserne legittimo proprietario, sicché si possa  			affermare, anche sulla base di adeguati elementi indizianti, che gli  			stessi sono stati oggetto di ritrovamento ed essendo, peraltro,  			sufficiente l'accertamento dei requisiti culturali del bene.  			3.2) Inoltre, secondo la giurisprudenza consolidata (salvo qualche  			decisione isolata) di questa Corte, dal momento che il possesso di  			oggetti di interesse artistico, storico o archeologico (appartenenti  			al patrimonio indisponibile dello Stato fin dal momento della loro  			scoperta) deve ritenersi illegittimo, il detentore ha l'onere di  			dimostrare di averli legittimamente acquistati ai sensi della L. 1  			giugno 1939, n. 1089, artt. 43, 44 e 46 (cfr. Cass. pen. sez. 2 n.  			12087 del 27.6.1995 - Dal Lago).
 3.3) La Corte territoriale, con motivazione adeguata ed immune da  			vizi, come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, ha  			accertato che la "culturalità" dei beni sequestrati è stata  			acclarata in modo certo dalla consulenza della dr.ssa Greco (cfr.  			pag. 4 sent.), per cui assolutamente inutile era disporre l'invocata  			perizia tecnica.
 3.4) Non vi è stata alcuna violazione del principio di correlazione  			tra reato contestato e reato ritenuto in sentenza. La contestazione  			originaria faceva, invero, riferimento alla illegittima detenzione  			degli oggetti di interesse archeologico, meglio descritti nel verbale  			di sequestro, appartenenti fin dal loro rinvenimento al patrimonio  			indisponibile dello Stato, e quindi a tutti gli elementi costitutivi  			dei reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 176.
 3.4) Infondata, infine, era l'eccezione di prescrizione sollevata con  			i motivi di appello. A parte il fatto che tale eccezione era stata  			formulata in modo del tutto generico e che la questione della non  			computabilità del rinvio disposto il 27.1.2005 viene sollevata  			soltanto con i motivi di ricorso, contrariamente a quanto ritenuto  			dai ricorrenti tale rinvio venne disposto in udienza per impedimento  			del difensore avv. Bonomo.
 3.5) I ricorsi debbono, quindi, essere dichiarati inammissibili, con  			condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in  			mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione  			della causa di inammissibilità, al versamento della somma che pare  			congruo determinare in Euro 1.000,00, ai sensi dell'art. 616 c.p.p..  			3.5.1) L'inammissibilità dei ricorsi preclude, poi, ogni  			possibilità di far valere e rilevare d'ufficio, ai sensi dell'art.  			129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione,  			maturata successivamente alla sentenza impugnata.  			Questa Corte si è pronunciata più volte sul tema anche a sezioni  			unite (per ultimo sent. n. 23428/2005 - Bracale). L'intrinseca  			incapacità dell'atto invalido di accedere davanti al giudice  			dell'impugnazione viene a tradursi, invero, "in una vera e propria  			absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali,  			che siano in grado di assegnare alle cause estintive già maturate  			una loro effettività sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti  			storicamente verificatisi, ma giuridicamente indifferenti per essersi  			già formato il giudicato sostanziale".
 P.Q.M.
 Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti  			al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa  			delle ammende della somma di Euro 1.000,00.
 Così deciso in Roma, il 7 luglio 2011.
 Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2011
 
                    




