Come
 insegna  la bibliografia  corrente,  l'alterazione  delle
prove diagnostiche può essere ottenuta sia con sostanze  prive di effetti
farmacologici (essenza di trementina, petrolio), sia con   prodotti
  farmaceutici  regolarmente  in   commercio e
normalmente  impiegati  come  antinfiammatori, l'inoculazione
 dei quali deve avvenire esclusivamente in  sede intramuscolare
profonda,  e non già 
per via intradermica.
In
entrambi i casi (di inoculazione di sostanza estranea  priva di  effetti
farmacologici, ovvero di inoculazione impropria  di farmaci)  si
 determinano nell'animale  reazioni dolorose ed altre reazioni 
locali che vanno dall'edema fino  alla  necrosi senza
considerare possibili sofferenze a carico di  particolari organi quali
fegato e rene.
 
Gli
ulteriori accertamenti sanitari necessari a risolvere casi di  sospetta
reazione aspecifica alla  prova  diagnostica sono fonte, poi, di
sofferenza, relativa al semplice contenimento dell’animale,   agli esiti
di inoculazioni o di  prelievi
ematici.
Infine,
  la   conseguenza  inevitabile   della
   fraudolenta somministrazione è sempre l'anticipata uccisione
dell'animale:  ciò  sia  nel
caso in  cui la frode sfugga al
 primo controllo sanitario, effettuato nel corso della visita in stalla,
 atteso che    la macellazione   coatta
  consegue    necessariamente  all'accertata
"positività” alla malattia, sia nel caso in cui, emergendo   sospetti
  della   frode,   si   renda necessaria
l'esecuzione  di  esami più approfonditi tra cui quello autoptico,
 al fine di acquisire prove attendibili circa l'esistenza o  meno
 della malattia.
Alcuni
degli imputati del processo in esame,  per
 neutralizzarare le prove diagnostiche, si erano avvalsi di farmaci
reperiti sul mercato  (BucK  19); in altri casi è dubbia  la
 natura  della sostanza   inoculata,  così  come
 del  tutto  sconosciute  le modalità di somministrazione.
In
 ogni  caso,  un  approfondimento  di  tali  circostanze
    incidenti,  come  visto, sull'aspetto  sofferenza
 animale    avrebbe potuto avvenire soltanto attraverso la
regressione del processo  alla sua fase iniziale, per 
una eventuale  estensione  dell'azione
penale anche al reato di maltrattamento di  animali 
previsto dall'art.727 c.p., essendo comunque 
certa,  in tutti  i 
casi  considerati, sia la  
sofferenza dell'animale,   nella
 sua  duplice   forma
 sopra  considerata,  sia   la   ingiustificata
uccisione   di  esso,   quale  conseguenza  della
 condotta   di fraudolenta somministrazione. 
Tale 
regressione,  astrattamente  possibile,  è 
stata  nella  specie
inibita dalla intervenuta prescrizione del reato.
Trattasi,
infatti, di illecito contravvenzionale punito con  la sola  ammenda,
 per il quale l'art.157 c.1 n.6  c.p. prevede  il termine di
prescrizione di due anni.
Lo
scopo di questa breve nota è  pertanto
quello di  stimolare, per i casi analoghi a quello sopra descritto, la
riflessione  e l'impegno   degli  operatori  coinvolti
 nella prevenzione   e repressione  dei comportamenti umani
inutilmente produttivi  di sofferenza   psicofisica,   se
  non   anche  lesivi della   dignità
dell'animale.
Fra 
le varie condotte di reato previste dall'art.727 c.p. quella degli
allevatori del caso in esame potrebbe configurarsi come "incrudelimento
verso animali senza necessità'".
In astratto
 sarebbe ipotizzabile una  rilevanza  della  sola sequenza
antecedente  alla   morte,    costituita
  dalla somministrazione  della sostanza idonea  per sua natura
o  per le  modalità della  somministrazione  stessa
   a cagionare dolore.
Il
reato andrebbe escluso qualora si dovesse ritenere che,  pur sussistendo
 nella specie  l'elemento  della  non   necessità
dell'incrudelimento (il che è evidente, visto che la condotta è stata motivata
esclusivamente da intenti  speculativi),  la semplice sofferenza
derivante dalla somministrazione  come
sopra praticata sul corpo dell'animale, e dagli accertamenti sanitari
successivi,  non sia oggettivamente di entità 
tale  da  potere rientrare nel concetto di maltrattamento.
E’
 altresì ipotizzabile una rilevanza  dell'intera  sequenza,
ossia  della  sofferenza (diretta e  indiretta)  seguita
 dalla inevitabile uccisione dell'animale.
Potrebbe,
infine, ipotizzarsi una rilevanza dell'evento 
 morte, a  prescindere  dal fatto che essa sia  o
 meno  preceduta  da sofferenza.
La
 configurazione  del  reato per ciò che  attiene  la
 prima ipotesi  non dovrebbe presentare problemi, attesa  l'evoluzione
giurisprudenziale in materia: infatti,  se da una parte la giurisprudenza
prevalente  ritiene che l'elemento della sofferenza 
sia insito in tutte le  ipotesi di maltrattamento previste
dall'art.723 c.p. (quindi non  solo in quelle  dell'incrudelimento
 senza  necessità e   delle sevizie, ma  anche
 in  quelle di detenzione  di  animali  in condizioni
 incompatibili  con  la loro  natura:  così 
 Cass. pen. sez.3  del
 29.01.97  ud.01.10.96; Cass.pen.  sez.3 del 16.03.98  
ud.06.02.98),  dall'altra  si  riconosce  che  tale
sofferenza non presupponga necessariamente   una   lesione
dell'integrità fisica dell'animale, ma possa consistere anche nello stato di
abbandono derivante da omissione di cure  (così
Cass.pen.sez.5 del  28.08.98 –ud.13.08.98 che ha  ravvisato  il
reato  di cui all'art.727 c.p. nell'ipotesi di mantenimento  di un
 cane  in condizioni di denutrizione e  di  infestazione
 da zecche  e  pulci), ovvero anche da puri  e  semplici
 patimenti (così   Cass.pen.sez.3 del  29.01.99
     ud.21.12.98  con
riferimento al mantenimento di un cane con catena  corta   e
senza riparo dal sole).
Tale
 interpretazione  appare conforme alla "ratio”  del  nuovo
art.727 c.p., così come modificato con legge 22 novembre  1993 n.473: con
essa la repressione penale del maltrattamento   che prima  della
 modifica legislativa era  considerato  unicamente come  un
reato offensivo del sentimento di umana  pietà  verso gli animali 
realizza una forma di tutela diretta dell'animale inteso come essere vivente
(così Cass.Pen. sez.3,  sent.12910 del 11.12.98 - ud.13.10.98).
Da
 tale  affermazione  giurisprudenziale  potrebbe  trarsi
 la conclusione  che il reato può sussistere anche se la  condotta
umana,  oggettivamente   idonea
 a determinare   ingiustificati patimenti  nell'animale,
 non  urti  anche  con  i  sentimenti dell'uomo:
cosa che è  forse da ritenere nel
caso in esame, ove  la  condotta
 di fraudolenta somministrazione  rientra  in  una prassi
molto diffusa fra gli allevatori, generalmente tollerata dall'indifferente
 collettività   dei
 consociati,  che  spesso guarda al bovino quale potenziale
“alimento” e che si  allerta prevalentemente, solo laddove sia
ravvisabile un attentato  alla salute   propria  (pericolo
 nella  specie inesistente     ed 
inesistente, quindi, l'offesa alla "pietas” umana 
 visto che i bovini macellati non sono stati commercializzati e non si
 è realizzata   alcuna   violazione di norme  poste
  a   tutela dell'igiene degli alimenti (art.5 L.n°283/62).
Si coglie
 l'occasione  per  rilevare  che  il  mutamento
  di oggettività giuridica  del reato (la  cui  repressione,
 come detto,  dovrebbe  garantire la tutela  dell'animale
 in quanto essere  vivente  e  non necessariamente anche
 la  sfuggente  e mutevole sensibilità  umana)  giustificherebbe
 un  mutamento anche  del "nomen juris” della condotta
("incrudelimento")  che lo ponga in linea col titolo della
rubrica ("maltrattamento"): ciò che oggi rileva non è 
la connotazione  soggettiva  della condotta    più o
meno crudele   quanto  la  sua  oggettiva idoneità a
produrre sofferenza,  semprecchè, 
ovviamente,  tale sofferenza  non sia giustificata dalla
"necessità” (nel  caso contrario,  non ha comunque alcun
senso parlare di "crudeltà” non  necessaria,  dato che
quest'ultima è,  per  definizione, gratuita).
 
L'evoluzione  ulteriore
 della  cultura   giuridica   potrebbe 
d'altronde  giovarsi di un'utile riflessione sul fatto  che
 la condotta  di "maltrattamento”, allorchè abbia come
soggetto passivo  l'essere  umano (art.572 c.p.), si  caratterizza
 come tale  per  la sua oggettiva  idoneità 
 a  produrre  patimento psicofisico   nella
  vittima,  anche   a prescindere   dalla
"crudeltà” del suo autore, elemento che semmai rileva sotto il diverso
profilo della intensità  del dolo.
D'altronde,
 facendosi interprete  della  mutata  sensibilità  
giuridica   e
anticipando la modifica  legislativa  introdotta dalla  legge n°473/93,
la giurisprudenza  sosteneva che
  sono punibili  ex art.727 c.p. non soltanto quei  comportamenti
che  offendono il comune sentimento di pietà 
e  mitezza  verso gli  animali (come suggerisce la parola
"incrudelire”   o  che destino ripugnanza -), "ma anche
quelle  condotte 
ingiustificate  che  incidono
 sulla  sensibilità  dell'animale
 producendo   un dolore,   pur
 se  tali condotte non  siano  accompagnate  dalla
volontà   di  infierire
sugli animali ma siano determinate  da condizioni  oggettive  di
abbandono o   incuria”....
“in via  di principio, il  reato  di cui  all'art.727
 c.p.,  in considerazione
   del    tenore    letterale
   della norma (maltrattamenti) e del contenuto di essa (ove si
parla non solo di sevizie, ma anche di sofferenze e affaticamento), 
tutela gli animali   in   quanto  autonomi
esseri viventi,   dotati   di sensibilità 
 psicofisica e capaci di reagire agli stimoli  del dolore, ove
essi superino una soglia di normale tollerabilità. La   tutela
  penale  è,  dunque, rivolta  agli   animali
  in considerazione   della  loro  natura.  Le
 utilità   morali
  e materiali che essi procurano all'uomo devono essere  assicurate
nel  rispetto  delle leggi naturali e  biologiche,  fisiche
 e psichiche,  di  cui ogni animale, nella  sua specificità, 
 è portatore."  (così
Cass. Pen. sez.3 sent.06122 del 27.04.90  ud.14.03.90).
In 
applicazione  di  tali  principi,  non  dovrebbero
 esservi difficoltà nel  riconoscere la  sussistenza  del
 reato   di maltrattamento   anche  nella  semplice
somministrazione   di sostanze idonee a procurare dolore, senza alcuna
necessità.
Nel
 caso  in  esame,  alla  condotta  di  somministrazione
   produttiva, come detto, di conseguenze dolorose per gli animali
 è  conseguita poi l'anticipata
uccisione degli stessi.
In
 tale  ipotesi,  dovrebbe  applicarsi  il  disposto
 di  cui all'art. 727 c.p., che prevede un aggravamento di pena
"se  il fatto… causa la morte dell'animale”.
Nella
 specie, la morte,  anche se
non costituente  conseguenza naturalistica  della condotta  di
 somministrazione  o  degli
accertamenti  sanitari successivi,  è 
nondimeno  addebitabile all'allevatore, quale conseguenza da lui
voluta proprio al fine di poter  lucrare
l'indennizzo corrisposto dalla Regione per  i casi di accertata positività 
alla malattia  (brucellosi o
tubercolosi).
La
 condotta  di  maltrattamento  dovrebbe  pertanto
 ritenersi aggravata ai sensi del secondo comma dell'art.727 c.p. .
 
Qualora,
 infine,  si  dovesse  ritenere che  la  condotta
 di somministrazione  in esame non sia  produttiva  di
 sofferenze oggettivamente   apprezzabili,   e
  pertanto giuridicamente rilevanti  come maltrattamenti,
resterebbe da  stabilire  quale rilevanza   penale
  assegnare   all'ingiustificata   uccisione
dell'animale:  con la precisazione che, trattandosi di  animale di
 proprietà  dello stesso
responsabile dell'evento, il  fatto non  potrebbe ricadere sotto
la sanzione di cui  all'art.638 c.p.: tale  norma punisce infatti
soltanto  la  ingiustificata uccisione di animali "che
appartengano ad altri", ed è   quindi
ben  lungi  dal tutelare l'animale in  quanto essere  vivente,
bensì   solo  il  patrimonio
del suo  proprietario,   alla  cui tutela fa riferimento il
titolo XIII del codice, nel cui capo I è  classificato
il reato di cui all'art.638 del codice penale.
 
Anche
 valutato  nell'ottica  della vecchia  normativa,  che
prevedeva, come detto, solo una tutela dei sentimenti umani,  e non  già 
 dell'animale quale essere vivente, nessun 
 atto  di incrudelimento  avrebbe dovuto turbare di più 
la  sensibilità umana della uccisione  
di un animale (non rileva se da  parte di  un  terzo o
dello stesso proprietario  dell'animale),  non giustificata da alcuna
necessità:  con riferimento
all'ipotesi dell'uccisione immotivata di un 
cane randagio  a colpi di fucile, la S.C. affermava la
sussistenza del  reato, perché   atti
 di  crudeltà  di questo
 tipo avrebbero  potuto divenire,  ove tollerati, una
"scuola di morale  insensibilità alle altrui sofferenze" 
(Cass.Pen. sez.3 del 25.11.82  ud.24.09.82). 
Il
 mutamento  di  valori di cui  è  espressione  la
 modifica  legislativa  dell'art.727
c.p. non giustifica più  la  liceità
della  uccisione dell'animale proprio,  
e fa  apparire quindi irragionevole  la limitazione della
repressione penale al  solo reato di maltrattamenti, con esclusione di
quello, più   grave, di
   uccisione   ingiustificata. 
(considerazioni,  queste, ampiamente  svolte  dal  Pretore
 di  GROSSETO nell’ordinanza  04.10.94
di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale  per la ritenuta
illegittimità  dell'art.727 c.p. in
relazione  agli artt.3 e 10 Cost.)
La
 regolamentazione  della uccisione di animali  selvatici  è
affidata  a leggi speciali, e non è 
questa la sede per valutare i  limiti e 
la qualità  della
"tutela” di cui essi siano,  in
ipotesi, destinatari.
Quanto
detto finora vale invece per tutti gli animali "propri", da  affezione
 o  meno che siano:  per
 i  primi,  infatti,  la normativa speciale di cui alla
legge quadro 14.08.91 n°281 nulla innova  rispetto  all'art.727
 c.p.,  poiché,   pur
 prevedendo all'art.2  il divieto di una loro uccisione
ingiustificata,  lo limita  ai soli cani e gatti, (mentre la legge ha
portata  più ampia,  essendo  diretta  a  tutelare
  tutti gli animali da affezione:  il  divieto  di
 abbandono  di  cui  all'art.5  c.1 riguarda  infatti
 "cani, gatti o qualsiasi  animale  custodito nella propria 
abitazione"); e,  in ogni caso non prevede alcuna sanzione per
la  violazione di tale divieto.
Le
 uniche  sanzioni  previste  all'art.5 Legge 281/91  concernono
 infatti condotte diverse e meno gravi della uccisione ingiustificata ed
hanno comunque natura amministrativa.
L'animale,
da allevamento o da affezione che sia, può 
pertanto essere ucciso senza necessità, e tale comportamento è lecito
penalmente (oltre che amministrativamente).
Il
  vuoto   legislativo  non  può 
 essere  colmato   in   via interpretativa,
 anche  se, prendendo la  mossa  dalle  ultime
evoluzioni  della giurisprudenza (che, come visto, considerano
maltrattamenti anche la semplice inflizione di "patimenti", pur se
  non accompagnata   da  una  vera   e
  propria   lesione all'integrità 
fisica dell'animale) si potrebbe essere  indotti a  notare che,
quantomeno in casi analoghi a quelli  in esame, non  esista morte non
preceduta da "patimento”,    ravvisandosi
questo quantomeno   nell'inevitabile   e   certo
  innaturale costrizione  fisica e nei mezzi anche minimamente
dolorosi  che precedono la macellazione: il tutto sarebbe penalmente  lecito, 
ove,   appunto   la  macellazione  fosse
  giustificata   dalla 
"necessità”   alimentare
con l'esecuzione di manovre  corrette, nel   rispetto  non
solo della  normativa  del  settore,   ma soprattutto
delle buone tecniche di allevamento che impediscano la  macellazione  di
 un animale  immaturo.  Esclusivamente  in queste condizioni
si sottoporrà  l'animale al minimo
 patimento possibile.   La macellazione  ingiustificata, per
contro, rientra  tra le condotte
punite dall'art.727 del codice  penale.
 
Tanto 
 dicasi sul piano della mera provocazione  intellettuale,
(peraltro  giustificata dalla  irragionevolezza  del  silenzio
legislativo   sul  punto),  e  non  certo  quale
proposta   di interpretazione  "estensiva”
dell'espressione  "maltrattamento” anche alla condotta di uccisione
ingiustificata:  infatti  una siffatta interpretazione è 
preclusa dal principio di legalità (art.2 c.p.).
Proprio
  in  considerazione  di  tale  principio,
  la   Corte Costituzionale,  con 
sentenza n°411 del 1995,  ha  dichiarato inammissibile 
 la  questione  di  legittimità 
costituzionale dell'art.727 del codice penale, sollevata, in riferimento
 agli artt.3  e  10 della Costituzione, dal Pretore di  GROSSETO
con l'ordinanza sopra citata.
La
Corte ha osservato che "una pronuncia additiva, dalla  quale consegua
l'inserimento nell'impugnato art.727 c.p. di  una norma  incriminatrice
della condotta posta in essere  da colui che  provoca  la
 morte di un animale di  sua  proprietà,  non rientra
 fra  i poteri costituzionalmente  spettanti  a  questa
Corte.  Infatti  al  giudice costituzionale non  è 
 dato  di pronunciare  una  decisione  dalla
 quale  possa derivare   la creazione  
esclusivamente riservata al legislatore  
 di  una nuova fattispecie  penale: e ciò 
in forza  del  principio  di legalità 
   sancito   dall'art.25, secondo   comma,
   della Costituzione".
Spetterà 
 pertanto all'iniziativa degli enti  ed  associazioni
protezioniste, degli operatori sanitari, oltre che dei singoli, sollecitare
l'intervento del legislatore per una modifica della norma  che la renda
conforme alla "ratio” della tutela  penale, destinata all'animale
quale essere vivente degno del  rispetto dell'uomo.
Dott.Claudio
Biglia
Veterinario
Dirigente ASL3  TORINO                          
                    
 
Dott.ssa
Marisa Vassallo
Magistrato
 presso  la  Corte  d'Appello  di TORINO
 
                    




