 Corte Costituzionale sent. 320 del 25 novembre 2011
Corte Costituzionale sent. 320 del 25 novembre 2011
Oggetto: Ambiente - Acque e acquedotti - Demanio e patrimonio dello Stato e delle Regioni - Norme della Regione Lombardia - Organizzazione del servizio idrico integrato - Disciplina della proprietà delle reti - Previsione che gli enti locali possano costituire una società patrimoniale d'ambito ai sensi dell'art. 113, comma 13, del d.lgs. n° 267/2000, a condizione che questa sia unica per ciascun ATO e vi partecipino direttamente o indirettamente mediante conferimento della proprietà delle reti, degli impianti, delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato e, in caso di partecipazione indiretta del relativo ramo d'azienda, i comuni rappresentativi di almeno i due terzi del numero dei comuni dell'ambito - Lamentato contrasto con il principio statale della proprietà pubblica delle reti, che rende illegittima la previsione di un trasferimento della proprietà degli impianti ad una società ancorché a partecipazione pubblica, nonché deroga al vincolo comunitario della piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche; Ambiente - Acque e acquedotti - Norme della Regione Lombardia - Organizzazione del servizio idrico integrato - Previsione che la società patrimoniale d'ambito costituita ai sensi dell'art. 113, comma 13, del d.lgs. n° 267/2000, ponga a disposizione del gestore incaricato della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali e che l'ente responsabile dell'ATO possa assegnare alla società il compito di espletare le gare per l'affidamento del servizio, le attività di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse - Lamentato contrasto con la disciplina statale che prevede che sia l'autorità d'ambito ad aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato.
Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza
 SENTENZA N. 320 ANNO 2011 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori:  Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco                 GALLO,  Gaetano                SILVESTRI, Sabino                 CASSESE,  Giuseppe               TESAURO, Paolo Maria            NAPOLITANO,  Giuseppe               FRIGO, Alessandro             CRISCUOLO, Paolo                   GROSSI, Giorgio                LATTANZI, Aldo                    CAROSI, Marta                  CARTABIA, Sergio                  MATTARELLA, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1,  comma 1, lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre  2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003,  n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale.  Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del  sottosuolo e di risorse idriche), in attuazione dell’art. 2, comma  186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191», promosso dal Presidente  del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 febbraio-2 marzo  2011, depositato in cancelleria il 1° marzo 2011 ed iscritto al n. 12  del registro ricorsi 2011. Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia; udito nell’udienza pubblica del 18 ottobre 2011 il Giudice relatore Franco Gallo; uditi l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il  Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Beniamino Caravita di  Toritto per la Regione Lombardia. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato il 25 febbraio 2011 e  depositato il successivo 1° marzo (r. ric. n. 12 del 2011), il  Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1, comma 1,  lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21,  recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26  (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in  materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo  e di risorse idriche), in attuazione dell’art. 2, comma 186-bis, della  legge 23 dicembre 2009, n. 191», per la parte in cui introduce nell’art.  49 della legge regionale n. 26 del 2003 i commi 2, 4 e 6, lettera c).  La disposizione è impugnata in riferimento all’art. 117, secondo comma,  lettere e), l), m), s), della Costituzione, nonché, limitatamente  all’introduzione del comma 2 nell’art. 49 della legge reg. n. 26 del  2003, in riferimento anche all’art. 117, primo comma, Cost. Il citato comma 2 stabilisce che «Gli enti locali  possono costituire una società patrimoniale d’ambito ai sensi  dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs. 267/2000, a condizione che  questa sia unica per ciascun ATO [ambito territoriale ottimale] e vi  partecipino direttamente o indirettamente mediante conferimento della  proprietà delle reti, degli impianti, delle altre dotazioni patrimoniali  del servizio idrico integrato e, in caso di partecipazione indiretta,  del relativo ramo d’azienda, i comuni rappresentativi di almeno i due  terzi del numero dei comuni dell’ambito». Il comma 4 del medesimo  articolo della legge regionale prevede che la società patrimoniale  d’ambito «In ogni caso […] pone a disposizione del gestore incaricato  della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni  patrimoniali» e che «L’ente responsabile dell’ATO può assegnare alla  società il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio,  le attività di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali  relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse». Il  successivo comma 6, lettera c), dispone che, al fine di ottemperare nei  termini all’obbligo di affidamento del servizio al gestore unico, l’ente  responsabile dell’ambito territoriale ottimale, tramite l’Ufficio  d’ambito di cui all’art. 48 della stessa legge reg. n. 26 del 2003,  effettua «la definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del  personale delle gestioni esistenti». 2. – Con riguardo all’art. 1, comma 1, lettera t), per  la parte in cui introduce il comma 2 nell’art. 49 della legge della  Regione Lombardia n. 26 del 2003, il ricorrente afferma che tale  disposizione, nell’autorizzare «ai sensi dell’articolo 113, comma 13,  del d.lgs. 267/2000», il conferimento in proprietà delle infrastrutture  idriche a società patrimoniali d’ambito a capitale interamente pubblico,  non cedibile, víola: a) l’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m),  s), Cost.; b) l’art. 117, primo comma, Cost. Quanto alla violazione del secondo comma dell’art. 117  Cost., il ricorrente si duole che la disposizione impugnata contrasta  con la seguente normativa statale, adottata nell’esercizio della  competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza,  ordinamento civile, determinazione dei livelli essenziali delle  prestazioni dei diritti civili e sociali, tutela dell’ambiente (articolo  117, secondo comma, lettere e, l, m, s): a) i commi 5 e 11 dell’art.  23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti  per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la  stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria),  convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133; b)  l’art. 143, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia  ambientale), il quale, in combinato disposto  con gli artt. 822, 823 e  824 del codice civile, qualifica le infrastrutture idriche come beni  demaniali e ne dispone l’inalienabilità «se non nei modi e nei limiti  stabiliti dalla legge». Secondo la difesa dello Stato, il conferimento in  proprietà previsto dall’impugnato comma 2 dell’art. 49 non può trovare  fondamento nell’espresso richiamo che tale comma opera alla disciplina  statale di cui al comma 13 dell’art. 113 del decreto legislativo 18  agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti  locali), in seguito indicato come TUEL. La disposizione da ultimo  citata, infatti, sarebbe stata implicitamente abrogata dai commi 5 e 11  dall’art. 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008. Dal comma 5,  che, affermando il principio della proprietà pubblica delle reti, ne  vieta la cessione a soggetti privati quali sono le società patrimoniali  d’àmbito, nonostante il loro capitale totalmente pubblico; dal comma 11,  che dispone l’abrogazione dell’art. 113 del TUEL nelle parti  incompatibili con il menzionato art. 23-bis. Con tale abrogazione  sarebbe venuta meno la norma statale dalla quale il comma 2 impugnato  traeva l’autorizzazione a intervenire in una materia riservata alla  legislazione esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettere  l) e s). In subordine, la difesa erariale deduce il contrasto  dell’impugnato comma 2 con la normativa statale vincolante in tema di  servizio idrico integrato di cui all’art. 143, comma 1, del decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).  Quest’ultimo stabilisce che «Gli acquedotti, le fognature, gli impianti  di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica,  fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio ai  sensi dell’art. 822 e ss. del codice civile e sono inalienabili se non  nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». Da tale articolo, nella  sua connessione sistematica con gli artt. 822, 823 e 824 del cod. civ.,  si evince, secondo il ricorrente, che gli acquedotti provinciali e  comunali sono soggetti al regime del demanio pubblico. Di qui  l’illegittimità costituzionale del denunciato comma 2, in quanto  autorizza il trasferimento della proprietà degli impianti a società di  diritto privato che si trovano in posizione di autonomia soggettiva  rispetto agli enti pubblici che ne sono soci. Quanto alla violazione del primo comma dell’art. 117  Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta che la  disposizione impugnata disattende un vincolo derivante dall’ordinamento  comunitario e reso operante attraverso l’art. 15, comma 1-ter,  del  decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per  l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della  Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con  modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, il quale prevede  che «tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico  integrato devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia  gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà  pubblica delle risorse idriche». 2.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha  impugnato anche l’art. 1, comma 1, lettera t), per la parte in cui  introduce il comma 4 nell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del  2003. Tale comma è censurato in quanto, prevedendo la possibilità di  assegnare alla società patrimoniale d’àmbito il compito di espletare le  gare per l’affidamento del servizio, si porrebbe in contrasto con l’art.  150, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 e con l’art. 12, comma 1,  lettera b), del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia  di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo  23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito,  con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). La suddetta  normativa statale prevede, infatti, che spetti all’Autorità d’ambito  aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato. La riserva alla  legge statale del potere di attribuire a diversi organi ed enti le  funzioni già di competenza degli ATO è confermata, secondo la difesa  erariale, dall’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n.  191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale  dello Stato – legge finanziaria 2010), il quale, nel prevedere la  soppressione delle AATO, ammette soltanto la loro attribuzione in blocco  ad altro, unico soggetto, non anche, come previsto dalla disposizione  regionale, lo scorporo di singole attribuzioni da devolvere a soggetti  diversi. 2.2. – L’art. 1, comma 1, lettera t), della legge reg.  Lombardia n. 21 del 2010 è impugnato, infine, per la parte in cui  introduce nell’art. 49 della citata legge della Regione Lombardia n. 26  del 2003 il comma 6, lettera c), il quale attribuisce all’ente  responsabile dell’ATO la competenza a definire i criteri per il  trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti. La  norma, secondo l’Avvocatura dello Stato, si collega all’impugnato comma 2  del medesimo art. 49, perché presuppone il trasferimento di proprietà  da questa autorizzato. Siffatto trasferimento – secondo la già  illustrata doglianza del ricorrente – è, tuttavia, vietato dalla legge  statale. Ne consegue, secondo la difesa dello Stato, che al comma 6,  lettera c), del citato art. 49 sono riferibili le medesime censure  formulate rispetto al comma 2 dell’art. 49 nel precedente punto 2. 3. – Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia,  che ha chiesto di dichiarare la questione non fondata e, limitatamente  all’impugnazione del richiamato comma 6, lettera c), inammissibile per  genericità della censura. 3.1. – In merito all’impugnazione del comma 2 dell’art.  49, la difesa regionale nega che il comma 13 dell’art. 113 del TUEL sia  stato implicitamente abrogato dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112  del 2008. Si osserva in proposito che l’art. 23-bis prevede – nel comma  11 – l’abrogazione delle disposizioni previgenti incompatibili, ma  demanda pure – nel comma 10, lettera m) – ad un regolamento di  delegificazione l’espressa individuazione delle norme da abrogare. E  l’art. 12, comma 1, lettera a), di tale regolamento (d.P.R. n. 168 del  2010) indica quali norme abrogate – a decorrere dall’entrata in vigore  dell’atto regolamentare di cui è parte – i commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9,  escluso il primo periodo, 14, 15-bis, 15-ter e 15-quater del menzionato  art. 113 del TUEL, senza fare menzione del comma 13. Di qui la  conclusione che il comma 13 dell’art. 113 del TUEL, al quale – come  visto – l’impugnato comma 2 dell’art. 49 si richiama quale suo  fondamento, deve considerarsi pienamente vigente. Inoltre, prosegue la resistente, non sussisterebbe  alcuna incompatibilità fra il predetto art. 23-bis e il comma 13  dell’art. 113 del TUEL. Quest’ultimo, argomenta la difesa regionale,  autorizzando il conferimento della «proprietà delle reti, degli impianti  e delle altre dotazioni patrimoniali a società a capitale interamente  pubblico» e sancendone l’incedibilità, non contraddice il comma 5  dell’art. 23-bis, il quale stabilisce che la proprietà delle reti è  pubblica. Alle società patrimoniali, infatti, dovrebbero essere  attribuite «le funzioni che normalmente competono ai soggetti  proprietari, senza che ciò metta in discussione lo status pubblicistico  di tali funzioni e dei relativi beni infrastrutturali». Il modello della  separazione fra gestione delle reti ed erogazione del servizio sarebbe  stato abbandonato proprio a seguito della sentenza di questa Corte n.  307 del 2009, e ciò, secondo la difesa regionale, renderebbe possibile  l’affidamento del servizio idrico integrato a un gestore unico di natura  privatistica. Ugualmente insussistente, secondo la difesa regionale,  sarebbe il contrasto dell’impugnato comma 2 dell’art. 49 con il comma 1  dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 – il quale assoggetta le reti e  le infrastrutture idriche al regime del demanio pubblico – nonché con  la disciplina dei beni demaniali cui tale comma fa rinvio (artt. 822 e  seguenti del codice civile). Infatti, la società patrimoniale d’àmbito,  al di là della veste formale di diritto privato, «costituisce  chiaramente un’articolazione funzionale degli enti locali», come emerge  dalla circostanza che detta società deve possedere un capitale  interamente pubblico di cui è espressamente sancita l’incedibilità. Il  modello gestionale prescelto dal legislatore regionale, prosegue la  Regione Lombardia, è stato del resto applicato ai beni del demanio  pubblico. L’art. 7 del decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63 (Disposizioni  finanziarie e fiscali urgenti in materia di riscossione,  razionalizzazione del sistema di formazione del costo dei prodotti  farmaceutici, adempimenti ed adeguamenti comunitari, cartolarizzazioni,  valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture),  convertito, con modificazioni, dalla legge 15 giugno 2002, n. 112 ha,  difatti, istituito la «Patrimonio dello Stato S.p.A.», una società per  azioni il cui capitale è interamente detenuto dal Ministero  dell’economia e delle finanze, prevedendo, nel comma 10, che alla  menzionata società possano essere trasferiti «diritti pieni o parziali  (…) su beni immobili facenti parte del demanio dello Stato», senza che  il trasferimento modifichi il regime giuridico dei beni demaniali  trasferiti. Anche la giurisprudenza costituzionale relativa al principio  di pubblicità delle acque confermerebbe, a detta della Regione  resistente, la legittimità del conferimento in proprietà di  infrastrutture idriche operato dall’impugnato comma 2 dell’art. 49.  Dalla sentenza di questa Corte n. 259 del 1996, in particolare,  emergerebbe che il principio di pubblicità delle acque deve essere  interpretato in una prospettiva teleologica, nel senso che esso va  inteso come strumentale alla garanzia del massimo godimento possibile  dei beni idrici, indipendentemente dal regime di proprietà che li  conforma. 3.2. – Quanto al comma 4 dell’art. 49 della legge reg.  n. 26 del 2003, impugnato perché, consentendo di «sottrarre all’ATO la  competenza ad aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato»,  violerebbe l’art. 150, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, la difesa  regionale deduce che la censura statale muove da una ricostruzione  inesatta del quadro normativo. Si afferma, al riguardo, che il potere di  riallocazione delle funzioni precedentemente svolte dalle soppresse  Autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO) – che lo Stato contesta  alla Regione di essersi arbitrariamente assegnato – è stato in realtà  attribuito alle Regioni dal legislatore statale, dal comma 186-bis  dell’art. 2, della legge n. 191 del 2009. Questo comma ha stabilito la  soppressione delle Autorità d’ambito operanti nei settori del servizio  idrico integrato e dei rifiuti a decorrere dal 1° gennaio 2011 e ha  inoltre previsto che le Regioni, entro il 31 dicembre 2010, debbano  attribuire con legge le funzioni prima esercitate dalle Autorità  d’ambito, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e  adeguatezza. In conformità con il predetto comma 186-bis – che ha  trasferito alle Regioni la potestà di distribuire funzioni per l’innanzi  riconducibili ad ambiti di legislazione statale esclusiva – la legge  regionale n. 21 del 2010, cui appartiene il denunciato comma 4, ha  stabilito che le funzioni spettanti alle soppresse AATO in materia di  servizio idrico integrato, a decorrere dal 1° gennaio 2011, siano  conferite alle Province e, limitatamente alla città di Milano, al Comune  di Milano. In questa cornice normativa, il denunciato comma 4 si pone,  secondo la difesa regionale, come adempimento necessario della  legislazione statale e non viola, perciò, l’art. 150 del d.lgs. n. 152  del 2006. Inoltre, prosegue la Regione resistente, le funzioni delle  soppresse AATO non devono essere assegnate “in blocco” ad un unico  soggetto, come sostiene la difesa erariale, poiché nessuna indicazione  in tal senso si trae dal richiamato comma 186-bis. Al contrario, la  scelta di assegnare alle società patrimoniali la possibilità di  espletare le gare per l’affidamento del servizio e le altre attività  connesse alla progettazione e al collaudo delle infrastrutture è, a  giudizio della difesa regionale, l’unica opzione capace di garantire  l’efficienza complessiva del sistema del servizio idrico integrato una  volta soppressa una struttura intermedia quale l’Autorità d’ambito. 4. – In prossimità dell’udienza pubblica, il Presidente  del Consiglio dei ministri ha presentato ulteriori memorie nelle quali  rileva che, per effetto del referendum popolare svoltosi il 12 e 13  giugno 2011, il piú volte richiamato art. 23-bis del decreto-legge n.  112 del 2008 è stato abrogato, ma che permane l’interesse alla decisione  della causa, poiché il tema della proprietà delle reti non è stato  inciso in alcun modo dall’esito referendario. La difesa erariale  ribadisce che il predetto art. 23-bis ha determinato l’abrogazione per  incompatibilità del comma 13 dell’art. 113 del TUEL e osserva che  l’intervenuta abrogazione in via referendaria dello stesso art. 23-bis  non fa rivivere automaticamente il comma 13, come del resto avrebbe  chiarito la sentenza di questa Corte n. 24 del 2011. Secondo  l’Avvocatura dello Stato, nel quadro normativo risultante  dall’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis verrebbe in rilievo la  direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31  marzo 2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di  acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e  servizi postali. Tale direttiva, prosegue la difesa erariale, nulla  prescrive in merito al regime giuridico delle infrastrutture, e anzi,  nel considerando n. 10, prevede che «sia lasciato impregiudicato il  regime di proprietà esistente negli Stati membri», in ciò conformandosi  all’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (in  seguito indicato come TFUE) che pone la medesima norma quale principio  generale del diritto dell’Unione. In conclusione, la natura pubblica  della proprietà delle reti sarebbe tuttora prevista, dovendosi ancora  considerare applicabile il comma 1 dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del  2006; e con il regime pubblico della proprietà contrasterebbe la norma  regionale impugnata, la quale, conferendo in proprietà le reti idriche,  le trasformerebbe in patrimonio aziendale privato e le renderebbe  pertanto soggette a trasferimento in favore di un terzo o ad azioni  esecutive, con violazione degli artt. 822, 823 e 824 del codice civile.  Ne resterebbe confermata l’illegittimità costituzionale del comma 2  dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003. 4.1. – Quanto al comma 4 dell’art. 49 della legge reg.  n. 21 del 2010, come introdotto dall’impugnato art. 1, comma 1, lettera  t), la difesa erariale osserva che esso era stato denunciato, nel  ricorso, per il contrasto con il comma 2 dell’art. 150 del d.lgs. n. 152  del 2006 e con il comma 1, lettera b), dell’art. 12 del d.P.R. n. 168  del 2010. La richiamata abrogazione referendaria del citato art. 23-bis  del decreto-legge n. 133 del 2008 ha fatto venire meno il fondamento  normativo del d.P.R. da ultimo citato, ma non ha toccato il richiamato  art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 se non nelle parti – non rilevanti  per la questione – che erano state modificate proprio dal menzionato  d.P.R. n. 168 del 2010. Di qui la permanenza del denunciato contrasto  con l’art. 150, nella parte in cui esso attribuisce all’ATO (e comunque,  in seguito alla soppressione di questo organismo intermedio, agli enti  cui le Regioni hanno trasferito le relative funzioni) la competenza ad  aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato «mediante gara  disciplinata dai princípi e dalle disposizioni comunitarie». 5. – Anche la Regione Lombardia ha presentato ulteriori  memorie difensive in prossimità dell’udienza. La Regione contesta  anzitutto l’assunto della difesa statale secondo il quale l’art. 23-bis  del decreto-legge n. 112 del 2008 avrebbe abrogato il comma 13 dell’art.  113 del TUEL. Si osserva, in proposito, che l’art. 23-bis prevede  l’abrogazione delle disposizioni con esso incompatibili e che tali  disposizioni sono state puntualmente ed espressamente elencate nel  menzionato d.P.R. n. 168 del 2010 e in particolare nell’art. 12 comma 1,  lettera a), il quale non menziona il comma 13, che per questo deve  ritenersi tuttora vigente. Dell’abrogazione, si prosegue nelle memorie, mancherebbe  il presupposto sostanziale, non ravvisandosi alcuna incompatibilità fra  il predetto art. 23-bis e il comma 13 dell’art. 113 TUEL. Il comma 5  dell’art. 23-bis, là dove stabilisce «ferma restando la proprietà  pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti  privati», dovrebbe essere interpretato, secondo la resistente, nel senso  che «gli enti locali non possono cedere la proprietà delle  infrastrutture, ma possono conferire la proprietà delle stesse a società  patrimoniali a capitale interamente pubblico incedibile, perpetuandosi,  cosí, per tale via, il regime di proprietà pubblica degli asset». In  seguito all’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis, inoltre, sarebbe  divenuta immediatamente applicabile la normativa comunitaria, che è meno  restrittiva. Il diritto europeo, infatti, non impone obblighi di  privatizzazione per le imprese pubbliche o incaricate della gestione di  servizi pubblici, in quanto nell’art. 345 del TFUE enuncia il principio  di neutralità rispetto al regime pubblico o privato della proprietà e  nell’art. 106 del TFUE, enuncia i principi di libertà di definizione e  di proporzionalità, stabilendo che le imprese incaricate della gestione  di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di  monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del TFUE, e in particolare  alle regole di concorrenza «nei limiti in cui l’applicazione di tali  norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della  specifica missione loro affidata». Secondo la Regione Lombardia, la  stessa direttiva 2004/17/CE, che disciplina, fra l’altro, le procedure  di appalto degli enti erogatori di acqua, evidenzierebbe la necessità di  tutelare le infrastrutture, anche al fine di assicurarne un utilizzo  capace di garantire il migliore svolgimento del servizio pubblico alle  comunità di riferimento. Dalla ricostruzione del  quadro normativo di  diritto europeo rilevante in materia risulterebbe confermata  l’infondatezza della denunciata violazione dei vincoli derivanti  dall’ordinamento comunitario da parte dell’impugnato comma 2 dell’art.  49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003. Il medesimo comma, secondo la Regione, sarebbe inoltre  conforme all’art. 143, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale  dispone l’appartenenza al demanio delle infrastrutture idriche di  proprietà pubblica. Tale disciplina statale, infatti, non sancisce  l’inalienabilità assoluta dei predetti beni, ma la consente «nei modi e  nei limiti stabiliti dalla legge». E non potrebbe certo dirsi  derogatoria di siffatto regime di inalienabilità la previsione, nella  disposizione regionale impugnata, che la proprietà delle infrastrutture  idriche possa essere conferita a società patrimoniali a capitale  interamente pubblico incedibile. 5.1. – In replica alle censure formulate avverso il  comma 4 dell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003, come  sostituito dall’impugnato art. 1, comma 1, lettera t), la Regione  osserva che il primo periodo di tale comma, ove si prevede che «in ogni  caso la società patrimoniale pone a disposizione del gestore incaricato  della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni  patrimoniali», riprende un criterio enunciato nella normativa statale di  settore, e precisamente nell’art. 153 del citato d.lgs. n. 152 del  2006. Quanto alla seconda parte del medesimo comma – impugnata perché  consentirebbe alle società patrimoniali di espletare le gare per  l’affidamento del servizio – la difesa regionale rileva che l’ente  locale cui sono affidate le funzioni delle soppresse AATO conserva la  responsabilità relativa all’affidamento del servizio, mentre alle  società patrimoniali d’àmbito sarebbe assegnato solo il compito di  espletare le gare, non anche quello di aggiudicare. 5.2. – Venendo alla censura concernente il comma 6,  lettera c), dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, come  sostituito dal denunciato art. 1, comma 1, lettera t), la resistente  chiede di dichiararla inammissibile per la sua genericità, lacunosità e  incompiutezza. La disposizione impugnata, si argomenta, si riferisce  alle aziende che attualmente effettuano il servizio di gestione in  alcune parti del territorio regionale in assenza di un titolo di  affidamento coerente con le disposizioni legislative in materia. Il  comma impugnato si limiterebbe a prescrivere agli enti responsabili  degli ATO la verifica propedeutica all’individuazione di un gestore  d’ambito, e farebbe riferimento ai dipendenti delle aziende allo stato  operanti e ai beni strumentali i cui costi sono stati coperti dalle  tariffe introitate dal servizio. Secondo la difesa regionale, in  conclusione, la norma denunciata disciplina oggetti su cui nulla si dice  né nel ricorso, né nelle memorie depositate in vista della trattazione  in udienza pubblica, che omettono del tutto di richiamare questa  doglianza. Di qui l’inammissibilità, in parte qua, del ricorso statale. Considerato in diritto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha  impugnato l’art. 1, comma 1, lettera t), della legge della Regione  Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge  regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di  interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti,  di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), in  attuazione dell’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n.  191», per la parte in cui introduce nell’art. 49 della legge regionale  12 dicembre 2003, n. 26, i commi 2, 4 e 6, lettera c). La disposizione è  impugnata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e), l),  m), s), della Costituzione, nonché, limitatamente all’introduzione del  comma 2 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, in riferimento  anche all’art. 117, primo comma, Cost. Tale comma 2 dell’art. 49 stabilisce che «Gli enti  locali possono costituire una società patrimoniale d’ambito ai sensi  dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs. 267/2000, a condizione che  questa sia unica per ciascun ATO e vi partecipino direttamente o  indirettamente mediante conferimento della proprietà delle reti, degli  impianti, delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico  integrato e, in caso di partecipazione indiretta, del relativo ramo  d’azienda, i comuni rappresentativi di almeno i due terzi del numero dei  comuni dell’ambito». Il comma 4 del medesimo articolo della legge  regionale prevede che la società patrimoniale d’àmbito «In ogni caso […]  pone a disposizione del gestore incaricato della gestione del servizio  le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali» e che «L’ente  responsabile dell’ATO può assegnare alla società il compito di espletare  le gare per l’affidamento del servizio, le attività di progettazione  preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico e  le attività di collaudo delle stesse». Il successivo comma 6, lettera  c), dispone che, al fine di ottemperare nei termini all’obbligo di  affidamento del servizio al gestore unico, l’ente responsabile  dell’àmbito territoriale ottimale [ATO], tramite l’Ufficio d’àmbito di  cui all’art. 48 della stessa legge reg. n. 26 del 2003, effettua «la  definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del personale  delle gestioni esistenti». 2. – Con riguardo al comma 2 dell’art. 49 della legge  reg. Lombardia n. 26 del 2003, il ricorrente afferma che tale comma,  nell’autorizzare, «ai sensi dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs.  267/2000», il conferimento in proprietà delle reti, degli impianti e  delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato a  società patrimoniali d’àmbito a capitale interamente pubblico, non  cedibile, víola: a) l’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m), s),  Cost.; b) l’art. 117, primo comma, Cost. Quanto alla violazione del secondo comma dell’art. 117  Cost., la difesa dello Stato deduce che la denunciata disposizione si  pone in contrasto con la seguente normativa emessa dallo Stato  nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva nelle materie  tutela della concorrenza (lettera e), ordinamento civile (lettera l),  determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti  civili e sociali (lettera m), tutela dell’ambiente (lettera s): a) i  commi 5 e «10» [recte: 11] dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno  2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza  pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,  dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i quali, rispettivamente, affermano  il principio di pubblicità delle reti dei servizi pubblici locali di  rilevanza economica ed abrogano l’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n.  267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) – in  séguito indicato come TUEL –, nelle parti incompatibili con lo stesso  art. 23-bis e, quindi, anche nelle parti incompatibili con tale  principio di pubblicità; b) comunque, l’art. 143, comma 1, del d.lgs. 3  aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), il quale, «in lettura  combinata» con gli artt. 822, 823 e 824 del codice civile, assoggetta  le infrastrutture idriche al regime del demanio pubblico e ne dispone  l’inalienabilità, salvi i casi e i modi stabiliti dalla legge. Quanto alla violazione del primo comma dell’art. 117  Cost., la difesa dello Stato deduce che la denunciata disposizione si  pone in contrasto con «un vincolo derivante dall’ordinamento comunitario  in ossequio al quale l’art. 15, comma 1-ter  del decreto-legge n. 135  del 2009 ha previsto […] che tutte le forme di affidamento della  gestione del servizio idrico integrato devono avvenire nel rispetto dei  principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed  esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche». 2.1. – Con riferimento alla prospettata violazione  dell’art. 117, secondo comma, Cost., la questione è fondata nei limiti  qui di séguito precisati. 2.1.1. – Al momento dell’emanazione della legge  regionale recante la disposizione impugnata, era già vigente il  principio generale stabilito – per tutti i servizi pubblici locali (SPL)  di rilevanza economica (salvo quelli afferenti ad alcuni specifici  settori, tassativamente indicati dalla legge statale) – dalla prima  parte del comma 2 dell’articolo 113 del citato TUEL, secondo cui «Gli  enti locali non possono cedere la proprietà degli impianti, delle reti e  delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici»,  salva la possibilità, prevista dal successivo comma 13, di «conferire la  proprietà» dei beni medesimi «a società a capitale interamente  pubblico, che è incedibile», purché tale conferimento «non sia vietato  dalle normative di settore». Sempre al momento dell’emanazione della  stessa legge regionale vigeva anche il comma 5 dell’art. 23-bis del  decreto-legge n. 112 del 2008 il quale, con riguardo in genere ai SPL di  rilevanza economica, stabiliva – in parziale contrasto con detto comma  13 dell’art. 113 del TUEL – che, «Ferma restando la proprietà pubblica  delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati». La disposizione regionale censurata prevede, sia pure  con riferimento alle sole infrastrutture idriche, un caso di cessione ad  un soggetto di diritto privato – la società patrimoniale d’àmbito a  capitale pubblico incedibile – di beni demaniali e, perciò, incide sul  regime giuridico della proprietà pubblica. Essa va, pertanto, ascritta  alla materia ordinamento civile, riservata alla competenza legislativa  esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera  l), Cost. Ne segue che la Regione resistente è legittimata a disporre in  tale materia solo ove la legge regionale costituisca attuazione di una  specifica normativa statale. 2.1.2. – Nella specie, una siffatta normativa statale  manca, non potendo essa essere individuata nel citato comma 13 dell’art.  113 del TUEL, nonostante che la stessa disposizione regionale impugnata  lo richiami quale norma statale da attuare. Detto comma 13, infatti,  non poteva costituire il fondamento della competenza legislativa  regionale in tema di regime proprietario delle infrastrutture idriche,  perché doveva ritenersi già tacitamente abrogato, per incompatibilità,  dal comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale  – come si è visto – aveva stabilito il principio secondo cui le reti  sono di «proprietà pubblica»; principio evidentemente in contrasto con  il richiamato comma 13, che consentiva, invece, il conferimento delle  reti in proprietà a società di diritto privato a capitale interamente  pubblico. Al riguardo, va osservato che la proprietà pubblica delle reti  implica, indubbiamente, l’assoggettamento di queste – e, dunque, anche  delle reti idriche – al regime giuridico del demanio accidentale  pubblico, con conseguente divieto di cessione e di mutamento della  destinazione pubblica. In particolare le reti, intese in senso ampio,  vanno ricomprese, in quanto appartenenti ad enti pubblici territoriali,  tra i beni demaniali, ai sensi del combinato disposto del secondo comma  dell’art. 822 e del primo comma dell’art. 824 cod. civ. Il comma 1  dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 (anch’esso anteriore alla  disposizione regionale impugnata) conferma la natura demaniale delle  infrastrutture idriche, dettando una specifica normativa di settore.  Esso dispone, infatti, che: «Gli acquedotti, le fognature, gli impianti  di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica,  fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio ai  sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono  inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». È, perciò, evidente l’incompatibilità del regime  demaniale stabilito dal comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n.  112 del 2008 e dal comma l dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 con  il conferimento in proprietà previsto dal comma 13 dell’art. 113 del  TUEL. 2.1.3. – La difesa della Regione resistente obietta che  la disposizione impugnata, nel prevedere espressamente l’incedibilità  del capitale della società a totale partecipazione pubblica e nel  richiamare il comma 13 dell’art. 113 del TUEL, garantisce il  mantenimento del regime giuridico proprio dei beni demaniali conferiti  in proprietà alla società patrimoniale d’àmbito. L’obiezione non è fondata. È noto che il patrimonio sociale costituisce una nozione  diversa da quella di capitale sociale: il primo è rappresentato dal  complesso dei rapporti giuridici, attivi e passivi, che fanno capo alla  società; il secondo è l’espressione numerica del valore in denaro di  quella frazione ideale del patrimonio sociale netto (dedotte, cioè, le  passività) che è fissata dall’atto costitutivo e non è distribuibile tra  i soci. Ne deriva che l’incedibilità delle quote od azioni del capitale  sociale – sia essa frutto di una pattuizione fra i soci (art. 2341-bis  cod. civ.) o, come nel caso di specie, di una previsione legislativa –  non comporta anche l’incedibilità dei beni che costituiscono il  patrimonio della società; beni, perciò, che possono liberamente  circolare e che integrano la garanzia generica dei creditori (art. 2740  cod. civ.), limitabile solo nei casi stabiliti dalla legge dello Stato  nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di ordinamento  civile. La sola partecipazione pubblica, ancorché totalitaria, in  società di capitali non vale, dunque, a mutare la disciplina della  circolazione giuridica dei beni che formano il patrimonio sociale e la  loro qualificazione. A sostegno dell’incedibilità dei beni conferiti in  proprietà nella società patrimoniale d’àmbito non può invocarsi – come  fa la difesa regionale – neppure il disposto dell’art. 7 del  decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63 (Disposizioni finanziarie e fiscali  urgenti in materia di riscossione, razionalizzazione del sistema di  formazione del costo dei prodotti farmaceutici, adempimenti ed  adeguamenti comunitari, cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio  e finanziamento delle infrastrutture), convertito, con modificazioni,  dalla legge 15 giugno 2002, n. 112, secondo cui il conferimento in  proprietà di beni demaniali dello Stato alla «Patrimonio dello Stato  S.p.A.», anch’essa società a capitale interamente pubblico, non comporta  la modificazione del regime giuridico di tali beni, quale stabilito  dagli articoli 823 e 829, primo comma, cod. civ. Tale normativa statale,  infatti, non riguarda i beni demaniali degli enti pubblici territoriali  considerati dalla disposizione impugnata, perché ha introdotto una  speciale disciplina del regime proprietario dei soli beni demaniali  dello Stato, insuscettibile di applicazione estensiva o analogica. 2.1.4. – Non può opporsi all’indicata abrogazione tacita  del comma 13 dell’art. 113 del TUEL il fatto che tale comma non è stato  inserito dall’art. 12, comma 1, lettera a), del regolamento di  delegificazione di cui al d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento  in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma  dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.  112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133),  tra le disposizioni del medesimo art. 113 abrogate ai sensi dell’art.  23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008. Va precisato in proposito che l’art. 23-bis ha previsto  due diverse modalità di abrogazione delle norme previgenti: a) nella  lettera m) del comma 10 ha affidato al Governo il potere di «individuare  espressamente», con regolamento, le disposizioni abrogate ai sensi  dello stesso art. 23-bis; b) nel successivo comma 11, con riferimento al  solo art. 113 del TUEL, ne ha disposto l’abrogazione «nelle parti  incompatibili con le disposizioni» del medesimo art. 23-bis. Nel primo  caso, l’effetto abrogativo è stato differito – conformemente all’art.  17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina  dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio  dei Ministri) – al momento dell’entrata in vigore del regolamento di  delegificazione; nel secondo caso, invece, tale effetto è conseguito  immediatamente dalla vigenza dell’art. 23-bis ed è accertato  direttamente dall’interprete. La speciale disciplina dell’abrogazione  per incompatibilità prevista per l’art. 113 del TUEL ha, dunque, lo  specifico significato di far discendere l’effetto abrogativo di tale  articolo unicamente dal comma 11 dell’art. 23-bis e, di conseguenza, di  rendere non operante il disposto della lettera m) del precedente comma  10, che, perciò, si riferisce soltanto alle norme previgenti diverse  dall’art. 113 del TUEL. Ciò trova indiretta conferma nell’alinea del  comma 1 dell’art. 12 del citato regolamento di delegificazione, il quale  – riferendosi cumulativamente alle disposizioni abrogate sia dell’art.  113 del TUEL (indicate nella lettera a), sia del d.lgs. n. 152 del 2006  (indicate nelle lettere b e c) – precisa che tali disposizioni «sono o  restano abrogate». Con tale espressione, evidentemente, il Governo ha  inteso distinguere le disposizioni di cui all’art. 113 del TUEL (lettera  a), che «restano» abrogate perché l’effetto abrogativo si era già  perfezionato all’atto della entrata in vigore dell’art. 23-bis, dalle  altre disposizioni (lettere b e c), che «sono abrogate» a séguito  dell’entrata in vigore del regolamento e, cioè, nel momento al quale la  legge delegificante differisce l’effetto abrogativo. In altri termini, il fatto che il menzionato regolamento  di delegificazione non abbia ricompreso il comma 13 dell’art. 113 del  TUEL tra le disposizioni abrogate non esclude che l’effetto abrogativo  si sia già verificato a far data dalla promulgazione della lex posterior  (art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008). E ciò  indipendentemente dalla circostanza che il ricordato regolamento –  adottato, come si è visto, sulla base del comma 10, lettera m),  dell’art. 23-bis – è stato ormai privato del suo fondamento normativo  dall’art. 1, comma 1, del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113 (Abrogazione, a  seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del decreto-legge n.  112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del  2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della  sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di  modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di  rilevanza economica), il quale ha dichiarato l’intervenuta abrogazione  dell’intero art. 23-bis per effetto dell’esito del referendum popolare  indetto con d.P.R. 23 marzo 2011. 2.1.5. – È necessario, infine, avvertire che il piú  volte menzionato comma 13 dell’art. 113 del TUEL non ha ripreso vigore a  séguito della dichiarazione – ad opera del citato art. 1, comma 1, del  d.P.R. n. 113 del 2011 – dell’avvenuta abrogazione dell’intero art.  23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (in questo senso,  specificamente, sentenza n. 24 del 2011). Questo quadro normativo non è stato modificato neppure  dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure per la  stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con  modificazioni, dal comma 1 dell’art. 1 della legge 14 settembre 2011, n.  148. Il comma 28 dell’art. 4 di tale decreto, nel riprodurre  letteralmente il contenuto del comma 5 dell’art. 23-bis del d.lgs. n.  112 del 2008 – abrogato, come si è visto, in seguito a referendum  popolare –, ha ripristinato il principio (dettato in generale per i SPL  di rilevanza economica) secondo cui, «Ferma restando la proprietà  pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti  privati». Con riferimento al regime della proprietà delle reti, tale  principio non solo è incompatibile – per le ragioni già esposte al punto  2.1.2. – con il comma 13 dell’art. 113 del TUEL, ma è espressamente  dichiarato non applicabile al settore idrico dal comma 34 dello stesso  art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011 («Sono esclusi  dall’applicazione del presente articolo il servizio idrico integrato  […]»). Ne deriva che questo settore continua ad essere disciplinato  dalla sopra evidenziata normativa e, in particolare, dal citato art. 143  del d.lgs. n. 152 del 2006, che, come visto, prevede la proprietà  demaniale delle infrastrutture idriche e, quindi, la loro  «inalienabilità se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». 2.2. – In conclusione, la rilevata abrogazione tacita  del comma 13 dell’art. 113 del TUEL, per incompatibilità con il comma 5  dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, preclude alla  Regione resistente di disciplinare, in attuazione del medesimo comma 13,  il regime della proprietà di beni del demanio accidentale degli enti  pubblici territoriali, trattandosi di materia ascrivibile  all’ordinamento civile, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera  l), Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Da ciò  consegue la violazione, da parte della Regione Lombardia, di tale sfera  di competenza statale e, quindi, l’illegittimità costituzionale del  comma 2 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, quale introdotto  dalla disposizione impugnata. Restano assorbiti gli altri profili di censura prospettati dal ricorrente in relazione al medesimo comma dell’art. 49. 3.– Con riguardo al comma 4 dell’art. 49 della legge  reg. n. 26 del 2003, il ricorrente afferma che tale disposizione, nella  parte in cui stabilisce che «l’ente responsabile dell’ATO può assegnare  alla società il compito di espletare le gare per l’affidamento del  servizio […]», si pone in contrasto con la seguente normativa emessa  dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva,  ad esso riservata dalle lettere e), l), m) e s) del secondo comma  dell’art. 117 Cost.: a) l’art. 150, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006,  come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 168  del 2010, secondo cui «l’Autorità d’ambito aggiudica la gestione del  servizio idrico integrato»; b) l’art. 2, comma 186-bis, della legge 23  dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), il quale,  prescrivendo che «le regioni attribuiscono con legge le funzioni già  esercitate dall’Autorità […]», avrebbe previsto l’attribuzione di tali  funzioni «in blocco ad altro, unico soggetto anziché […] l’enucleazione  di una singola attribuzione da devolvere a soggetto formalmente privato  isolatamente dalle rimanenti competenze». Questa Corte deve preliminarmente rilevare che la  disposizione denunciata, prevedendo la possibilità di assegnare il  compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio idrico alla  società patrimoniale d’àmbito di cui al precedente comma 2 dello stesso  art. 49, fa riferimento ad un soggetto la cui costituzione è prevista da  una disposizione della quale è stata accertata, al punto 2,  l’illegittimità costituzionale. Da tale illegittimità consegue quindi,  necessariamente, anche quella del denunciato comma 4, senza che debba  procedersi allo scrutinio di tale comma in base ai parametri evocati. 4. – Con riguardo al comma 6, lettera c), dell’art. 49  della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003, secondo cui l’ente  responsabile dell’ATO effettua «la definizione dei criteri per il  trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti», il  ricorrente afferma che tale disposizione víola le lettere e), l), m) e  s) del secondo comma dell’art. 117 Cost., perché sussistono «le medesime  illegittimità» già prospettate con riferimento al «collegato» comma 2  dello stesso articolo 49. La questione non è fondata. Il ricorrente, muovendo dalla premessa interpretativa  che il denunciato comma 6, lettera c), sia «collegato» al precedente  comma 2, ripropone le medesime censure prospettate in relazione a  quest’ultimo comma. Detta premessa è, però, erronea, perché il comma 2  riguarda, come visto, il conferimento in proprietà delle infrastrutture  idriche alla società patrimoniale d’àmbito, mentre l’impugnato comma 6,  lettera c), concerne solo la definizione dei criteri per il  trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti al  gestore unico del servizio idrico integrato, gestore che è soggetto  diverso dalla società patrimoniale d’àmbito. Risulta, quindi, evidente  che non sussiste il dedotto collegamento tra il comma 2 e il comma 6,  lettera c), dell’art. 49 e che, di conseguenza, le censure prospettate  dal ricorrente nei riguardi della prima disposizione non possono valere  con riferimento al contenuto normativo della seconda. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi 2 e  4 dell’art. 49 della legge della Regione Lombardia 12 dicembre 2003, n.  26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale.  Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del  sottosuolo e di risorse idriche), introdotti dall’art. 1, comma 1,  lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21,  recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26  (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in  materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo  e di risorse idriche), in attuazione dell’articolo 2, comma 186-bis,  della legge 23 dicembre 2009, n. 191»; 2) dichiara non fondata la questione di legittimità  costituzionale della lettera c) del comma 6 dell’art. 49, della legge  reg. Lombardia n. 26 del 2003, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera  t), della legge reg. Lombardia n. 21 del 2010, proposta dal Presidente  del Consiglio dei ministri in riferimento all’art. 117, secondo comma,  lettere e), l), m) e s), della Costituzione, con il ricorso indicato in  epigrafe. Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011. F.to: Alfonso QUARANTA, Presidente Franco GALLO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011. Il Direttore della Cancelleria F.to: MELATTI
 
 
 
 
                    




