Presidente: Grossi M. Estensore: Perconte Licatese R. P.M. Cafiero D. (Conf.)
Comune Canosa (Lamesta) contro Calò (Palmieri)
(Rigetta, App. Bari, 17 maggio 1995).
RISARCIMENTO DEL DANNO - IN GENERE - Danno ambientale - Dolo o colpa - Necessità - Prova - Onere del danneggiato.
L'ente territoriale, che agisce per il risarcimento del danno ambientale, deve dimostrare il dolo o la colpa del danneggiante, e, quindi, dopo la legge 8 luglio 1986 n. 349, la violazione di "disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge", altrimenti vigendo il principio "qui iure suo utitur neminem laedit".
REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE    
 SEZIONE TERZA 
 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 Dott. Manfredo          GROSSI                     - Presidente -
 Dott. Vittorio          DUVA                      - Consigliere -
 Dott. Renato            PERCONTE LICATESE    - Rel. Consigliere -
 Dott. Giovanni Battista PETTI                     - Consigliere -
 Dott. Donato            CALABRESE                 - Consigliere -
 ha pronunciato la seguente 
S E N T E N Z A
 sul ricorso proposto da:
 COMUNE CANOSA DI PUGLIA, in persona del Sindaco pro tempore,  			elettivamente domiciliato in ROMA VIA NAZIONALE 230, presso lo  			studio dell'avvocato GIANFRANCO FARACI, difeso dall'avvocato PIERO  			LAMESTA, giusta delega in atti;
 - ricorrente -
 contro
 CALÒ GIACOMO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MADDALENA  			RAINERI 12, presso lo studio dell'avvocato SABINO FACCIOLONGO,  			difeso dall'avvocato ANGELO PALMIERI, giusta delega in atti;
 - controricorrente -
 avverso la sentenza n. 461/95 della Corte d'Appello di BARI, emessa  			il 12/04/95 e depositata il 17/05/95 (R.G. 284/88);
 udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del  			07/05/97 dal Relatore Consigliere Dott. Renato PERCONTE LICATESE;
 udito l'Avvocato Dott. Angelo PALMIERI;
 udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.  			Dario CAFIERO che ha concluso per il rigetto del ricorso.  			SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 Il Comune di Canosa di Puglia convenne in giudizio, innanzi al  			Tribunale di Trani, Calò Giacomo, titolare della omonima ditta  			operante nel settore dell'estrazione e dello sfruttamento  			dell'argilla, per sentirlo condannare al pagamento di lire 500  			milioni, o altra somma ritenuta di giustizia, a titolo di  			risarcimento dei danni, per avere deturpato irrimediabilmente,  			proseguendo nelle attività estrattive senza concessione e anche in  			spregio di un'ordinanza sindacale che gli aveva ingiunto la  			sospensione dei lavori, una delle sette colline circostanti  			all'abitato. Il Calò, proseguiva l'attore, era stato condannato dal  			pretore, con sentenza del 3 luglio 1981, per la contravvenzione di  			cui agli artt. 1 e 17 lett. B della legge 28 gennaio 1977 n. 10.  			Il convenuto opponeva la piena legittimità del suo operato,  			autorizzato dal Corpo delle Miniere e peraltro sempre conforme alle  			norme della legge e della tecnica.
 Nel corso dell'istruzione, il Calò, con sentenza del 5 dicembre  			1983, veniva assolto dall'imputazione di cui sopra perché il fatto  			non sussiste, e tale pronuncia passava in cosa giudicata.  			L'adito Tribunale, con sentenza del 31 dicembre 1987, rigettava la  			domanda.
 La Corte di Appello di Bari, con la sentenza ora impugnata, emessa  			il 17 maggio 1995, ha respinto il gravame principale del Comune e  			quello incidentale del Calò, che si era doluto della compensazione  			delle spese del primo grado.
 La Corte territoriale ha anzitutto escluso, in forza del giudicato,  			che lo sfruttamento della cava fosse soggetto a concessione, sia  			pure a norma del locale regolamento edilizio.
 Comunque, ha argomentato, sta di fatto che il Comune non ha dedotto  			l'esistenza di un danno ambientale tutelabile civilmente e  			risarcibile, ma solo la violazione dell'interesse generale al  			mantenimento del patrimonio ambientale, inidoneo a costituire un  			diritto soggettivo azionabile, onde l'evidente superfluità  			dell'ispezione e della consulenza tecnica chieste in prime cure e  			non ammesse dal Tribunale. Ha poi rilevato che il Comune, con  			l'appello, ha dedotto, oltre alla lesione di interessi diffusi,  			anche un generico danno a cose, di cui neppure assume la proprietà o  			disponibilità, lese non nel particolare pregio loro conferito  			dall'ambiente ma nella loro materialità e consistenza, danno questo  			sicuramente esulante dai confini di quello ambientale e che si  			inserisce invece in quello residuale per così dire "ordinario", con  			un'immutazione della "causa petendi" così radicale da comportare la  			novità della domanda, pertanto inammissibile in appello (art. 345  			c.p.c.), e da non giustificare alcuna indagine istruttoria.  			Ricorre per la cassazione di tale sentenza il Comune, sulla base di  			tre motivi, cui risponde l'intimato con controricorso, illustrato da  			una memoria.
 MOTIVI DELLA DECISIONE
 Col primo motivo, denunciando la violazione dell'art. 652 c.p.p. e  			dell'art. 2 lett. B della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, in  			relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente afferma che la  			sentenza assolutoria del giudice penale rende solo incontestabile  			che il Calò, avendo gestito la cava senza la concessione edilizia,  			non ha commesso la contravvenzione di cui agli artt. 1 e 17 lett. B  			della legge 28 gennaio 1977 n. 10, ma non impedisce che nella sua  			condotta possano ravvisarsi altre violazioni, di norme  			amministrative, come l'art. 6 del Reg. edilizio comunale (che esige,  			per l'apertura o l'ampliamento di nuove cave, la licenza di  			costruzione), non disapplicabile "incidenter tantum", per difetto di  			giurisdizione, dal giudice ordinario, o civilistiche, come l'art.  			2043 c.c.. Viceversa la Corte d'appello ha ritenuto di estendere il  			giudicato anche ai fatti materiali estranei alla contestazione  			penale e in nessun modo accertati nel giudizio penale.  			Tali censure, per la loro infondatezza, non sono meritevoli di  			accoglimento.
 La sentenza penale, passata in giudicato, di assoluzione del Calò ha  			solo stabilito che, per l'apertura e l'esercizio della cava  			d'argilla, in assenza di opere urbanistiche, l'imputato non aveva  			l'obbligo di munirsi della concessione edilizia, onde  			l'insussistenza della contravvenzione ascrittagli (artt. 1 e 17  			lett. B della legge 28 gennaio 1977 n. 10); escludendo nello stesso  			tempo, almeno per implicito, che un obbligo siffatto potesse  			scaturire, piuttosto che dalla legge, da una fonte normativa  			secondaria e subordinata alla legge, come l'art. 6 del regolamento  			edilizio comunale.
 La Corte di merito, preso atto di ciò, si è limitata ad osservare  			correttamente che, per effetto del giudicato penale assolutorio, non  			può adesso ritenersi il contrario, che cioè l'attività del convenuto  			appellato "fosse soggetta a concessione", ma non ha affatto  			rifiutato aprioristicamente la possibilità che nella condotta del  			Calò potessero ravvisarsi violazioni di norme diverse, di qualsiasi  			natura, perché nessuna affermazione in tal senso si rinviene nella  			motivazione, la cui lettura smentisce dunque nettamente l'assunto  			che la Corte territoriale avrebbe esteso l'efficacia del giudicato  			penale "anche ai fatti materiali non oggetto di accertamento nel  			giudizio penale".
 Quanto alla disapplicazione dell'art. 6 del regolamento edilizio, la  			Corte d'appello non si è posta "ex professo" il problema, sia per  			averlo ritenuto già risolto dal giudice penale ("per quanto  			giustamente argomentato dal giudice d'appello penale") sia perché  			giudicato comunque superfluo ai fini della decisione. Occorre  			tuttavia chiarire che, qualora, a torto o a ragione, avesse reputato  			di dover ribadire tale disapplicazione, avrebbe legittimamente  			esercitato il potere riconosciuto al giudice ordinario dall'art. 5  			della legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E, a tenore del quale "le  			autorità giudiziarie applicheranno (...) i regolamenti generali e  			locali in quanto siano conformi alle leggi"; non essendo dubitabile  			che spetti soltanto alla legge prescrivere, nei singoli casi, la  			necessità della concessione edilizia (art. 1 della legge 28 gennaio  			1977 n. 10).
 Col secondo motivo, denunciando la falsa applicazione dell'art. 345  			c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), il Comune ricorda che, col proprio  			atto introduttivo del giudizio, allegò l'esistenza del danno  			ambientale facendo specifico riferimento non alla violazione degli  			artt. 1 e 17 lett. B della legge n. 10 del 1977, "ma, in maniera  			generica, sia al danno ambientale che al danno generico", mettendo  			in luce non solo lo "scempio" dei "doni naturali" ma altresì un  			comportamento del Calò "fortemente lesivo degli interessi della  			collettività in generale e del Comune di Canosa di Puglia in  			particolare". Nella comparsa conclusionale spiegò poi "in cosa era  			consistito il comportamento fortemente lesivo". Il Tribunale,  			esaminando questi ultimi profili di una possibile responsabilità,  			concernenti la violazione, da parte del Calò, di varie prescrizioni  			(normative, tecniche o di comune prudenza), li ritenne, è vero,  			infondati; ma tanto basta ad escludere la ritenuta "novità" della  			domanda in secondo grado, non configurandosi una domanda nuova "se  			su di essa già vi è motivata decisione in primo grado".  			Il capo censurato resiste alle critiche, per vero poco pertinenti,  			del ricorrente.
 Rileva la sentenza impugnata, "in parte qua", come in appello il  			Comune abbia dedotto "anche, oltre alla lesione di interessi  			diffusi, danni reali, quali quelli derivanti dalla rottura delle  			strade, dalla insalubrità delle acque stagnanti". In tal modo,  			prosegue il giudice di merito, il Comune "allega un generico danno a  			cose (di cui neppure assume la proprietà o disponibilità) lese non  			nel particolare pregio loro conferito dall'ambiente (...) ma nella  			loro materialità e consistenza (...); e cioè "un danno che  			sicuramente esula dai confini di quello ambientale per inserirsi in  			quello residuale per così dire ordinario, con evidente immutazione  			della "causa petendi" dell'azione così radicale da comportare la  			novità della domanda", pertanto inammissibile ai sensi dell'art. 345  			c.p.c.
 Orbene, come è un dato ormai acquisito in dottrina e in  			giurisprudenza, deve distinguersi, con riferimento ad un'azione di  			risarcimento del danno ambientale promossa da un Comune, tra il  			danno ai singoli beni, di proprietà privata o pubblica, o comunque a  			posizioni soggettive individuali, che trovano la loro tutela nelle  			regole ordinarie; e il danno all'ambiente considerato in senso  			unitario, quale bene a sè stante, ontologicamente diverso dai  			singoli beni che ne formano il substrato, in cui il profilo  			sanzionatorio, nei confronti del fatto lesivo del bene ambientale,  			comporta un accertamento che non è quello del mero pregiudizio  			patrimoniale, bensì della compromissione dell'ambiente, vale a dire  			della lesione, in sè del bene ambientale (cfr. Cass. 1 settembre  			1995 n. 9211). L'ambiente in senso giuridico, quale bene unitario ma  			anche immateriale (Corte cost., sent. 30 dicembre 1987 n. 641),  			rappresenta cioè un insieme che, pur comprendendo vari beni o  			valori, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in  			una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressione di un  			autonomo valore collettivo, specifico oggetto, come tale, di tutela  			da parte dell'ordinamento, rispetto ad illeciti, la cui idoneità  			lesiva va valutata con riguardo a siffatto valore e
 indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o  			più delle dette singole componenti, secondo un concetto di  			pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno  			patrimoniale, si connota tuttavia per una più ampia accezione di  			danno "svincolata da una concezione aritmetico- contabile" (Cass. 9  			aprile 1992 n. 4362; cfr. altresì Corte cost., sent. cit.).  			Lo stesso fatto può comportare, oltre che un danno all'ambiente, da  			risarcire in considerazione del suo valore di assieme, che  			ovviamente prescinde dal valore patrimoniale delle singole  			componenti, anche un danno a una o più di queste ultime, risarcibile  			invece in termini di stretta equivalenza pecuniaria.  			Emerge così, per diversità di oggetto e di criteri di
 quantificazione del danno (prescindendo, per adesso, dai profili  			concernenti la legittimazione attiva e le condotte lesive), la  			profonda differenza strutturale tra il danno all'ambiente, sempre di  			natura pubblicistica, e il danno da lesione di determinati beni,  			privati o pubblici, ancorché entrambi ricadano nell'ambito della  			tutela aquiliana apprestata dall'art. 2043 c.c..
 La doverosa indagine di fatto, autorizzata dal denunciato "error in  			procedendo", permette di verificare che le deduzioni ulteriori e  			peculiari contenute, rispetto alla citazione (dove era esclusivo  			riferimento alla menomazione paesaggistica subita dal territorio  			comunale, derivata dalla distruzione della collina), nella comparsa  			conclusionale di primo grado (come lo sfaldamento e il dissesto  			delle strade o le piantagioni compromesse dalle polveri diffuse  			nell'aria), e di qui trasferite nell'atto di appello (in cui si  			accenna, oltre che alla lesione di "interessi diffusi", anche ai  			"danni reali" già prima evidenziati), in quanto espressione di  			un'ordinaria pretesa risarcitoria residuale per il danneggiamento di  			beni determinati, inclusi o meno nel più generale quadro ambientale  			e paesaggistico, provocarono un radicale mutamento dell'originario  			"thema decidendum", introducendo nel processo una nuova "causa  			petendi", fondata su situazioni e premesse giuridiche e di fatto  			prima non prospettate, con la conseguente introduzione di una  			domanda nuova, giustamente sanzionata dalla Corte territoriale con  			la declaratoria di inammissibilità ai sensi dell'art. 345 c.p.c..  			Il ricorrente mostra di non avere ben inteso il senso e i limiti  			della novità rilevata dalla Corte d'appello, la quale non ha nulla a  			che vedere col diverso tema concernente le molteplici violazioni che  			avrebbero contraddistinto "il comportamento fortemente lesivo" del  			Calò ( ritenute non provate dal Tribunale), di cui si dirà più  			oltre.
 Col terzo motivo infine, prospettando il vizio di insufficiente e  			contraddittoria motivazione, ai sensi degli artt. 134 n. 4 c.p.c.  			e 118 disp. att., nonché la violazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697  			c.c. (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.), il ricorrente, premesso che  			l'ordinamento riconosce, come diritto della personalità, la pretesa  			alla conservazione dell'ambiente (bene giuridico distinto dai beni  			privati e pubblici, che lo compongono), e che il danno patrimoniale  			sofferto per la lesione del bene dell'ambiente riguarda tutti i  			soggetti che ne risentono gli effetti; osserva che al Comune,  			rappresentante della collettività danneggiata, non può disconoscersi  			la legittimazione a far valere tale diritto, quale interesse  			collettivo azionabile in sede civile, anche prima della legislazione  			speciale in materia. I giudici di merito, conclude il ricorrente,  			contraddittoriamente, da un lato hanno rigettato l'istanza di  			ispezione e di consulenza tecnica intese ad accertare il danno, e  			dall'altro hanno respinto la domanda per la mancata prova del danno  			medesimo.
 Queste doglianze, pur racchiudendo una parte di verità,, non possono  			indurre alla cassazione della sentenza.
 La Corte d'appello, nel solco di Cass. 9 marzo 1979 n. 1463, afferma  			che il Comune "non ha dedotto l'esistenza di un danno ambientale  			tutelabile civilmente e risarcibile (che (...) non è dipendente  			dalla generica lesione del bene costituito dall'ambiente, ma è  			collegato alla disponibilità esclusiva di un bene, la cui  			conservazione, nella sua attuale potenzialità di recare utilità al  			soggetto, sia inscindibile dalla conservazione delle condizioni  			ambientali), ma solo una violazione dell'interesse generale al  			mantenimento del patrimonio ambientale, non tutelabile civilmente  			per la sua inidoneità a costituire diritto soggettivo azionabile".  			Così argomentando la Corte d'appello adotta una concezione, più che  			riduttiva, addirittura negativa del danno ambientale come categoria  			giuridica autonoma, prescindendo dalle più recenti acquisizioni in  			materia e dal complesso di principi elaborati in questi ultimi anni,  			specie dopo la fondamentale sentenza della Corte costituzionale n.  			641 del 30 dicembre 1987, e ignorando per giunta del tutto gli  			spunti interpretativi ricavabili, anche per il passato, dalla legge  			8 luglio 1986 n. 349. L'art. 18 di tale legge, lungi dall'innovare  			in tutto e per tutto la materia, ha in gran parte sanzionato e  			riconosciuto una realtà giuridica da tempo incontroversa, come per  			es. la legittimazione attiva degli enti territoriali all'azione  			risarcitoria per la lesione dell'ambiente (legitti-mazione che  			peraltro la stessa Corte territoriale non mette in discussione), nel  			quadro di una protezione preordinata alla salvaguardia di un  			"elemento determinativo della qualità della vita" e che "non  			persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime  			l'esigenza di un "habitat" naturale nel quale l'uomo vive ed agisce  			(...), necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini,  			secondo valori largamente sentiti", di cui sono interpreti gli artt.  			9 e 32 Cost. La funzione solo ricognitiva, in gran parte, della  			legge cit. è dunque confermata dal fatto che nel nostro ordinamento  			giuridico la protezione dell'ambiente, come ha messo in luce il  			giudice delle leggi, è da sempre imposta da precetti costituzionali  			(artt. 9 e 32) ed attiene ad un bene che assurge a valore primario ed  			assoluto. L'art. 18 cit., sebbene non retroattivo, oltre a sancire  			la già ricordata legittimazione all'esercizio dell'azione di tutela  			ambientale dello Stato nonché degli altri enti pubblici territoriali  			"sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo" e l'espressa  			attribuzione della competenza giurisdizionale al giudice ordinario  			(disposizione processuale di immediata applicazione: Cass. S.U. 12  			febbraio 1988 n. 1491), ha definito e tipizzato l'illecito  			ambientale, richiedendo, quale suo elemento costitutivo, una  			condotta dolosa o colposa, violatrice "di disposizioni di legge o di  			provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l'ambiente,  			ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o  			distruggendolo in tutto o in parte".
 Come è stato perspicuamente scritto in una precedente occasione da  			questa Suprema Corte (Cass. 19 giugno 1996 n. 5650), la  			configurabilità dell'ambiente come bene giuridico non trova la sua  			fonte genetica nella cit. legge del 1986 (che si occupa piuttosto  			della ripartizione della tutela tra Stato, enti territoriali e  			associazioni protezionistiche) ma direttamente nella Costituzione,  			considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente,  			attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (artt. 2, 3,  			9, 41 e 42) che concernono l'individuo e la collettività nel suo  			"habitat" economico, sociale, ambientale. Tali disposizioni primarie  			elevano l'ambiente ad interesse pubblico fondamentale, primario e  			assoluto, imponendo allo Stato un'adeguata predisposizione di mezzi  			di tutela, per le vie legali, amministrative e giudiziarie.  			Pertanto anche prima della legge cit. (ma di ciò la Corte d'appello  			non si è avveduta) la Costituzione e la norma generale dell'art.  			2043 c.c. apprestavano all'ambiente (secondo le definizioni che ne  			sono state date nel corso dell'esame del secondo mezzo) una tutela  			organica e piena, di cui era già allora espressione la  			legittimazione attiva degli enti territoriali direttamente  			danneggiati, rappresentativi della collettività organizzata lesa in  			un suo bene primario ed assoluto.
 L'errore di diritto in cui è incorsa la sentenza impugnata non  			appare tuttavia rilevante e decisivo, posto che, al di là delle  			incongrue affermazioni di principio, essa si fonda su ragioni  			sufficienti a sorreggerla, pur nel differente ordine di idee fin qui  			esposto.
 Invero la Corte d'appello ha rifiutato l'ammissione di un'ispezione  			e di una consulenza tecnica in ragione della loro "inutilità",  			subito dopo meglio chiarendo il suo pensiero con l'assumere, a  			giustificazione del rifiuto, "la genericità dei fatti dannosi  			allegati dall'appellante", la qual cosa avrebbe connotato la  			sollecitata indagine istruttoria come "puramente ed  			inammissibilmente esplorativa"; ciò dopo aver ricordato, a  			confutazione della tesi dell'ap-pellante, secondo cui "il danno  			ambientale assunto non doveva comunque essere provato, perché non  			contestato", che al contrario il Calò ebbe a contestare "fin dal  			primo atto difensivo che la propria attività estrattiva avesse  			procurato danni".
 Risulta dal testo della sentenza impugnata e dallo stesso ricorso  			che il Comune, in sostanza, denunciò, a fondamento della sua azione  			risarcitoria, "sic et simpliciter", un'attività estrattiva di  			ingenti dimensioni, di cui il convenuto eccepì sempre la piena  			legittimità, "perché autorizzata dal Corpo delle Miniere, Distretto  			Minerario di Napoli, e sempre praticata nel rispetto delle norme di  			legge e di tecnica"; senza che l'attore abbia mai, in contrario,  			addebitato al Calò una sola specifica violazione, che fosse  			sintomatica di una condotta dolosa o colposa, tale da far supporre  			un'attività non più pienamente lecita ma potenzialmente rilevante ai  			sensi dell'art. 2043 c.c. (l'unica norma disciplinante, all'epoca,  			la materia). Si è detto che vano è il richiamo a una presunta  			violazione dell'art. 6 del regolamento edilizio comunale, già  			disapplicato dal giudice penale; e può aggiungersi che, per  			conseguenza, è inconcludente invocare un'ordinanza sindacale di  			sospensione dei lavori, se e in quanto, come sembra, emessa proprio  			in base all'illegittimo art. 6 del regolamento.
 Quanto poi alle presunte violazioni, accennate a proposito del  			secondo mezzo, della legge 9 aprile 1959 n. 128 (norme di polizia  			delle miniere e delle cave), "concernenti le distanze dalle strade,  			dai corsi d'acqua, ecc., nonché la sicurezza per le persone che vi  			lavorano e per i terzi estranei", a parte ogni valutazione di  			pertinenza al tema, che non compete in questa sede, la Corte  			d'appello le ha implicitamente incluse nel suo complessivo e  			riferito giudizio di "genericità" delle deduzioni dell'attore, ne' il  			ricorrente oppone di averle invece, nel corso del giudizio di  			merito, più precisamente dettagliate, per renderle concrete e  			aderenti alla fattispecie.
 Occorre ricordare che, in tema di danno ambientale, sia per i fatti  			anteriori alla legge del 1986, regolati dal solo art. 2043 c.c., sia  			per i fatti successivi, disciplinati dall'art. 18 cit., non è  			sufficiente la modificazione, alterazione o distruzione  			dell'ambiente naturale considerata da un mero punto di vista  			obiettivo, nella sua materialità, ma occorre l'elemento soggettivo  			intenzionale, che cioè la condotta sia "dolosa o colposa" e, per la  			legge speciale, qualificata dalla "violazione di disposizioni di  			legge o di provvedimenti adottati in base a legge"; altrimenti  			vigendo la nota causa esimente dell'esercizio legittimo di un  			diritto ("qui suo jure utitur neminem laedit").
 In questa situazione processuale, nella quale, stando agli  			accertamenti e alle valutazioni insindacabili del giudice di merito,  			nulla è stato provato se non il semplice dato obbiettivo della  			corrosione della collina per effetto dell'attività estrattiva,  			legittimo si palesa il rifiuto tanto dell'ispezione quanto di una  			consulenza tecnica, la quale ultima, in particolare (ma altrettanto  			dicasi della prima), come è giurisprudenza costante di questa Corte  			di legittimità, non può mai essere ammessa ed espletata per  			sopperire all'inerzia probatoria della parte e segnatamente non può  			avere finalità semplicemente esplorative, volte cioè a ricercare, in  			luogo della parte onerata, gli elementi fattuali da porre a sostegno  			delle pretese fatte valere nella causa.
 Nè si obietti che il danno ambientale sia rilevabile solo col  			ricorso a determinate cognizioni tecniche, sicché, versando la parte  			nell'impossibilità di provarlo in altro modo, non possa il giudice,  			senza contraddirsi, respingere l'istanza di consulenza e nello  			stesso tempo ritenere non provato ciò che proprio essa avrebbe  			dovuto dimostrare.
 Bisogna invero distinguere tra i fatti obiettivi, che la parte è in  			ogni caso nella concreta possibilità di provare, quale coordinate  			del danno, e che consistono nell'evento materiale in sè,  			corrispondente alla modificazione delle caratteristiche esteriori  			dell'ambiente, e nelle condotte dolose o colpose che l'hanno  			provocata; e la valutazione tecnica dell'evento ad opera di esperti,  			la quale può nei congrui casi rendersi necessaria, onde appurare se  			quella modificazione configuri un danno ambientale giuridicamente  			rilevante.
 Peraltro gli enti territoriali titolari dell'azione risarcitoria  			dispongono di propri uffici tecnici idonei ad offrire al giudice la  			prova, o un principio di prova, dei presupposti obiettivi del  			particolare danno lamentato, ragion per cui può ben dirsi che, nella  			speciale materia in esame, la consulenza tecnica d'ufficio venga di  			regola ad assumere un peculiare ruolo integrativo, di verifica di  			precedenti accertamenti eseguiti "da qualificati organismi  			pubblici", solo in presenza dei quali, non sussistendo  			inottemperanza del danneggiato all'onere della prova, non può  			fondatamente rigettarsi la richiesta istruttoria, che si presenta in  			tal caso come lo strumento tecnicamente più funzionale ed efficace  			d'indagine (cfr. Cass. 1 settembre 1995 n. 9211 cit.).  			Censurabile, in conclusione, sotto il primo aspetto, la sentenza  			impugnata è viceversa ineccepibile nel resto, e inevitabile pertanto  			è il rigetto del ricorso.
 Soccorrono giusti motivi per compensare le spese del presente  			giudizio di Cassazione.
 P.Q.M.
 La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
 Così deciso a Roma, addì 7 maggio 1997.
 
                    




